Ad oggi sono passati 5475 giorni. Ben quindici anni, da allora non si ha ancora un colpevole, un movente, ma soprattutto sono rimasti nell’ombra anche i killer! Il 15 gennaio 1998, Matteo Bottari, professore di diagnostica e chirurgia endoscopica, sposato con Alfonsetta Stagno D’Alcontres, figlia di Guglielmo, ex Rettore dell’Università di Messina, venne assassinato con due colpi di lupara in faccia all’incrocio tra il viale Regina Elena e il viale Annunziata, intorno alle ore 21, mentre tornava a casa dalla Clinica Cappellani.
In un’intervista realizzata da StrettoWeb lo scorso novembre, il giornalista Antonio Mazzeo commentò così il caso dell’omicidio Bottari: “è paradossale come in questa vicenda anche i killer sono rimasti senza volto, è un fatto gravissimo. Questa è la dimostrazione che a Messina la mafia esiste, quando molte volte invece si dice il contrario”. Negli anni, in molti si interessarono a quello che fu denominato il “Caso Messina”: Carlo Lucarelli (nel 2008) raccontò dell’omicidio Bottari durante una
puntata di Blu Notte, dentro la quale si parlava di altre due illustri vittime messinesi: Graziella Campagna e Beppe Alfano. Roberto Gugliotta, direttore di IMG Press, quotidiano nazionale online, e collaboratore presso il “Corriere della Sera” e “L’Espresso”, gli ha dedicato il libro “Matteo Bottari: l’omicidio che sconvolse Verminopoli” (edito nel 2007). Se ne è parlato, e se ne parla tanto, ma la giustizia non ha mai fatto il suo corso.
In seguito all’omicidio partirono subito le indagini coordinate dal pm Carmelo Marino, che imboccarono la pista della gestione degli appalti dell’Ateneo. Intervenne anche la Commissione nazionale antimafia, che tracciò un quadro inquietante: la città venne descritta come governata da un “grumo d’interessi” politico-affaristico-mafiosi che avrebbe il suo fulcro all’Università, che gestiva un budget di appalti da 250 miliardi di lire. Quella dell’omicidio Bottari è una storia che inquieta tutti i messinesi. Tutti coloro che pensavano che Messina fosse “la città babba” dove al massimo puoi fare i conti con il piccolo criminale di turno, da quel 15 gennaio dovettero guardare in faccia la realtà e scoprire che nella città dello stretto la mafia esiste. E’ una mafia che spara, e lo si fa puramente per interessi intrecciati tra crimine organizzato – politica – e poteri forti.
La relazione stilata dell’antimafia fa emergere i primi nomi, l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi costringe alle dimissioni il sottosegretario Giorgianni, mentre due magistrati (Zumbo e Romano) furono costretti a cambiare sede. Iniziarono i primi tentativi di depistaggio delle indagini che portarono ai rapporti tra la ‘ndrangheta calabrese e il Policlinico Universitario di Messina: il rettore e il prorettore denunciarono di aver ricevuto messaggi di morte, il segretario generale dell’Ateneo trovò la sua auto sforacchiata da cinque colpi di pistola, ma alla fine si scoprì che si trattava solo di una simulazione. Dietro l’omicidio del professor Bottari si nasconde il malaffare della gestione delle Università, e non solo. Un amalgama di ferro tra ‘ndrine calabresi, mafia locale e soggetti istituzionali come docenti, magistrati, giudici e professionisti insospettabili, tutti appartenenti ad una “borghesia mafiosa” che si era inserita con disinvoltura nella normalità della società civile.
L’allora neo-Procuratore Luigi Croce (oggi commissario straordinario della città di Messina) chiese l’aiuto del Consiglio Superiore della Magistratura. Vennero scoperti strani rapporti tra magistrati ed esponenti delle famiglie mafiose; le lungaggini, i ritardi nella gestione dei processi, la gestione dei collaboratori di giustizia, e i termini di custodia che scadono inesorabilmente. L’inadeguatezza delle istituzioni nel confrontarsi con questo tipo di fenomeno e l’incapacità di dare una risposta adeguata per fare giustizia è l’esempio lampante del “verminaio” (termine utilizzato da Nichi Vendola, allora vice presidente della commissione antimafia). Messina non è una “città babba”, la mafia esiste! Ed è la più spietata e cinica che possa esserci nel territorio siculo. Sorniona e inabissata per non farsi riconoscere dall’opinione pubblica, si mescola nella società onesta, creando una fitta rete di malaffare che negli anni ha portato al collasso socio-economico (ed anche culturale) un’intera provincia.
Come è stato possibile che in tutti questi anni di indagini e inchieste giornalistiche non si sia mai arrivati ai mandanti, al movente, o agli esecutori? Messina è davvero così radicalmente corrotta da insabbiare (e soprattutto dimenticare) l’assassinio di un illustre professore universitario avvenuto nel pieno traffico delle 21:00 in un punto nevralgico della zona nord? Stando ai fatti, o per meglio dire, ai progressi “non fatti” in termini di giustizia, la risposta è si. Il silenzio è mafia, e Messina e i suoi cittadini per lungo tempo sono rimasti in silenzio. Non è mai stata chiesta giustizia, abbiamo nascosto tutti la testa sotto la sabbia e ci siamo resi complici di un secondo delitto, l’omertà! Si potrebbe dire benissimo “è passato tanto tempo ormai, non è più il momento per trovare i colpevoli”. Ma le nostre menti, e quelle di chi ha un barlume di senso civico, sanno che non è così, anche dopo 15 anni di depistaggi, prescrizioni e assoluzioni si può tentare di portare a galla la verità. La selvaggia uccisione di uno dei più quotati docenti dell’ateneo peloritano non può rimanere per sempre un mistero.