“Sangue e vendetta” di Cosimo Sframeli

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cosimo sframeliDietro tutte le morti violente ci sono le storie piccole e uniche di persone. Sorrisi e lacrime, canzoni e sospiri, stupori e sogni, tante delusioni. Storie fatte di carne, che qualcuno ha il dovere di raccontare. Noi che possiamo, se non lo facciamo, diventiamo complici di ogni mistero dell’esistenza, contro la Verità, luminosa e bella. La Verità che cambi la storia e che rimanga al di là del corso della storia. Che sia intima ma si esprima nel modo con cui un negoziante serve un cliente, un capo di stato serve la collettività, gli uomini di legge trattano i delinquenti, i sacerdoti consolano la speranza segreta dei peccatori. Si metterebbe in comunione il cielo con la terra e la terra con il cielo, salvando e redimendo la storia degli uomini e gli uomini nella loro storia. E sarebbe pure bello se ognuno di noi si ricordasse che la Verità non è solo qualcosa da aspettare, ma da ricostruire. Qualcosa che possiamo donare agli altri, per puro spirito di amore.

A Mammola, il primo giugno del 1969, Maria Teresa Ferraro, con otto colpi di pistola, a sangue freddo, ammazza  Maria Immacolata Marì, responsabile di essere la zia di un uomo che sei mesi prima, il 14 dicembre 1968, con un colpo di ombrello diretto all’occhio sinistro, uccise il suo giovanissimo figlio. La “giustiziera” è stata, quindi, arrestata durante la notte dai Carabinieri, a Grotteria, nella contrada “Santa Barbara”. L’omicidio di Maria Immacolata Marì trae origine da un desiderio viscerale di vendetta da parte della Ferraro che così crede di fare giustizia per la morte del figlio, Niccodemo Jannizzi di 20 anni, ucciso da Niccodemo Sansalone di 54 anni, nipote della vittima stessa. Nella tarda serata di quel 14 dicembre, Sansalone, soprannominato “pulce”, in evidente stato di ebbrezza, reagì, a colpi d’ombrello, per respingere le molestie da parte di un gruppo di giovinastri, tra i quali Niccodemo Jannizzi. Fatalmente, il puntale del parapioggia arriva a conficcarsi nel bulbo dell’occhio sinistro del giovane, ledendo organi vitali della testa. Dopo diciotto ore di agonia, trascorse in un lettino dell’ospedale di Locri, Niccodemo Jannizzi decedeva senza aver mai ripreso conoscenza. L’improvvisa e crudele morte del figlio, così giovane, gettava nella disperazione la mamma, che trovò in una assurda vendetta la strada al suo patire. I medici, effettuato l’esame necroscopico sul cadavere di Maria Immacolata Macrì, confermano che l’uccisa è stata raggiunta da otto proiettili, cinque dei quali l’hanno raggiunta in parti vitali. Ferraro conferma  al maresciallo dei carabinieri di aver sparato per vendetta, essendo stata schiaffeggiata ed offesa nella memoria del figlio ucciso. Riesplodeva, in maniera violenta e drammatica, l’amore per la sua creatura, morta ammazzata e ormai seppellita sotto terra. Non riusciva a darsi pace e trascorreva le notti insonni, meditando una vendetta assurda e inumana contro un’ignara innocente. Maria Immacolata Macrì non ha colpe se non quella di essere la zia dell’assassino, nel tempo in cui Maria Teresa Ferraro non riesce a frenare l’impulso irresistibile di vendicare la morte del figlio, appena ventenne. La psiche della povera donna è invasa e devastata da infiniti ricordi e pensieri, tanto da decidere di armare la mano contro una donna che non ha proprio alcuna colpa. L’episodio ora assopito, per molto tempo creò raccapriccio e stupore nel piccolo paese alle pendici dell’Aspromonte e la gente del luogo, pur deplorando l’atto inconsulto di Maria Teresa Ferraro, non seppe infierire contro la donna che aveva voluto, col suo gesto, vendicare la memoria del figlio. I lunghi anni passati in carcere hanno reso mite l’animo di Maria Teresa, che si è dedicata con passione ai vari lavori per attenuare il lento trascorrere del tempo. La vita in carcere, chiusa in anguste celle, è stata per lei un vero e proprio tormento, avendo lasciato a casa marito e figli senza nessuno che li badasse. Nei luoghi di pena in cui è stata rinchiusa ha potuto assaporare l’amaro della vendetta consumata nella disperazione, rimanendo in attesa del perdono di Dio.

I giorni trascorrevano con le settimane, i mesi, gli anni…” – Afferma lo scrittore Salvino Nucera nel romanzo Chalònero –  “Nei tre anni ad Avellino conobbe uomini che non avevano la minima idea del significato delle parole ‘uomo’, ‘amore’, ‘anima’, ‘cuore’, amici da tutte le parti, di peso e non. Scrisse poesie, di notte, quando altri dormivano: poesie di gioia, di dolore, di amore, di morte; sul tempo che cambia, per quello perso, per il tempo trascorso, sul mondo che cambia, sulla vita che fugge, sull’uomo nei suoi rapporti con gli altri, con il mondo. Il carcere di Barcellona era peggiore di quello di Avellino. In gran parte era gente senza “parola”, che non aveva spina dorsale, fegato. Non sapeva nemmeno perché viveva o la ragione che aveva spinto molti ad atti illegali” – Sottolinea ancora Nucera –  “Tre anni a Barcellona gli sembrarono vent’anni. Dopo sette anni trascorsi dietro alti, spessi, freddi muri, migliaia di alte, dure, fredde sbarre, gli amnistiarono un anno per buona condotta. Gli rimaneva da scontare un anno soltanto. Erano passati sette anni dietro le sbarre! Un bel trancio di vita”.

 Capire non per inorridire ma perché la presa di coscienza possa contribuire alla maturazione sociale ed al superamento di retaggi negativi di una Calabria che pur si trova in fase di ripresa culturale e spirituale, sostenendosi a vicenda nella crescita come persone.

Cosimo Sframeli   

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