Reportage fotografico: viaggio nel cuore dell’Aspromonte, dove sorge il Santuario di Polsi con la Madonna della Montagna

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Il Santuario di Polsi, altrimenti detto della Madonna da muntagna riveste un fascino e un’attrazione particolari per i calabresi e non solo. Recarvisi in pellegrinaggio un sabato dei primi di ottobre riserva un percorso incantato dove i caldi colori di un ancora  timido autunno al tintinnio dei felici abitanti dei boschi, come uccellini, starne, scoiattoli, caprette e quant’altro, tra le acque limpide dei ridenti ruscelli, rendono il paesaggio stregato. Valli e monti si susseguono ininterrottamente nella via incantata della fede, che ti conquista magicamente, ti distrae dai disagi del dissesto stradale, e ti solleva lo sguardo verso l’azzurro intenso di un cielo quantomai terso che protegge  i costoni lussureggianti ingioiellati dalle Pietre, testimoni vivi di un passato ricco di storia.La punta montuosa  di Nardello e quella più alta di Montalto dominano valli, dove tra massicci rocciosi, scorrono le acque chiare del Buonamico. Non si può evitare di osservare tra queste meraviglie della natura, l’imponente Pietra Cappa, espressione dell’incontro denso di storia e leggenda proprio di questi luoghi.

A questo proposito, dunque, una leggenda narra che quando, costeggiando il mar Ionio, sotto il sole ardente, Gesù con i suoi discepoli giunsero in Calabria, furono presi dalla sete. Si fermarono, quindi, in un paesello fra ulivi e mandorli, si dissetarono e ripresero il cammino. Ma dopo la sete venne la fame e San Pietro si rivolse a Gesù, che, confidando nell’aiuto del Padre, ordinò ai suoi discepoli di prendere un sasso e portarlo fino al fiume. San Tommaso, ingenuo come sempre, si caricò un macigno, mentre San Pietro scelse accuratamente un sasso piccolo quanto un panino. Gesù sorrise pensando a come sarebbe stata punita la malizia di Pietro. Giunti sul greto del fiume, gli apostoli si disposero in cerchio intorno al loro Maestro, il quale alzando gli occhi al cielo benedisse i sassi convertendoli, con gran meraviglia dei presenti, in pani caldi e croccanti come se uscissero allora dal forno. Pietro, avvilito, si ripropose di non sbagliare più e quando Gesù ordinò nuovamente agli Apostoli di prendere un sasso e portarlo per penitenza,  scelse una pietra pesantissima sperando di poter mangiare per una settimana. Quando, a notte fonda, giunsero in pianura, il Maestro diede ordine che tutti posassero a terra le loro pietre e si sedessero sopra per riposare. San Pietro rimase deluso ancora una volta ma, consapevole di aver sbagliato, chiese che quel sasso potesse almeno rimanere lì per l’eternità. Allora si vide il macigno gonfiarsi e diventare così grosso da coprire un buon ettaro di terreno. Quel macigno che è chiamato Pietra Cappa è ancora oggi a qualche km da Natile, sotto l’Aspromonte e i pastori dicono che si sente dentro uno strano rumore, come se qualcuno battesse con una mano di ferro contro le pareti della roccia. Pare sia  Malco, sergente del Sinedrio, che, al tempo della Passione, colpì con uno schiaffo il volto del Salvatore e, dopo la sua morte, fu chiuso da San Pietro, divenuto guardiano del Paradiso, in quel macigno, dove è condannato a schiaffeggiare quelle pareti di sasso per l’eternità.

Nell’antichità calabrese, prima dell’avvento del cristianesimo, il culto delle pietre apparteneva già alla culltura ellenistica, per la quale i macigni giganti erano onorati come immaggini delle divinità.

Giunti al Santuario, dunque,vien da chiedersi  come e perchè un afratto nascosto tra le pieghe di un territorio spigoloso custodisca una perla luminescente che racconta l’incontro tra Maria e la Croce.

A tale proposito sarebbe interessante riprendere la storia del passato per capire i tempi attuali e per impadronirci di un passato che  appartiene nel nostro DNA. In questo senso mi sento di condividere il pensiero di Salvatore Gemelli, autore dell’ importante scritto “Storia  tradizioni  e leggende a Polsi d’Aspromonte” Gangemi Editore 1992, quando scrive: “Si ha l’impressione che la rottura esistente fra forma e contenuto delle tradizioni calabresi si debba far risalire alla crisi intervenuta al momento in cui la Calabria è stata strappata al suo contesto culturale greco per essere brutalmente inserita in quello esclusivamente  occidentale. Forse da tale momento storico data l’immobilismo culturale. Se è vero ciò, allora esso andrebbe inteso come espressione dell’arresto dello sviluppo culturale del popolo per il venir meno della comprensione, da parte di esso,del rapporto esistente fra le sue manifestazioni culturali e il loro contenuto per essere scomparso il tramite culturale omogeneo che, prima, aveva dato vita a quei contenuti in seno a quella popolazione. Tali contenuti sono tuttora presenti per essere stati ereditati, ma sono incompresi e misconosciuti dagli stessi detentori perchè l’ambiente culturale in cui vivono non offre più loro la chiave interpretativa. Le tradizioni e i vari monumenti culturali han finito con lo svuotarsi adulterandosi e scomparendo sommersi dalle proprie ceneri”.

Riflessioni, queste, particolarmente attuali, che ritornano prepotentemente conversando con i compagni pellegrini, nel viaggio di sabato 6 ottobre 2012.

La celebrazione eucaristica si svolge in un’atmosfera particolarmente suggestiva, nella quale si avverte, si respira, si assapora la presenza del Sacro ed è  officiata dal Parroco PierPaolo Surleti con la cornice dei  Portatori della Vara di Santo Stefano in Aspromonte, che hanno organizzato questo pellegrinaggio, e ai quali va il ringraziamento di tutti coloro che hanno preso parte all’iniziativa.

Foto di Gaetano Caridi & Mimma Suraci

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