L’affascinante storia di Nino Martino, il brigante buono e generoso chiamato “Cacciadiavoli”

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La storia della Calabria è costellata da ombrose figure che, tra i boschi e gli antichi paesini, hanno effettivamente fatto la storia della nostra terra, molto di più di regnanti che furono impegnati solamente in lotte dinastiche ed in inutili guerre alle quali essi si appropinquarono con sempre gran veemenza: stiamo ovviamente parlando dei briganti. Tali figure hanno fatto invece la storia, perché nell’ombra, di nascosto, hanno operato fra la gente, fra i più piccoli ed i più indigenti. Di queste figure l’unica cosa che si sa è che non si sa niente, sono quasi l’esemplificazione umana dei sogni dell’”inverno calabrese” (il lungo periodo oscuro che vi fu in Calabria dal Medioevo al Risorgimento), dei loro aneliti di libertà, che però non hanno avuto forte effetto, che sono stati sempre brevi, poco duraturi, quasi sfuggenti e persi in tradimenti, uccisioni ed efferati delitti.

A tutto ciò appartiene anche il brigante “Nino Martino”, il “Cacciadiavoli”, brigante buono e generoso, leale e coraggioso, colui il quale vendicò i torti della gente e divenne a causa di ciò “santo”: per questo era ovviamente lo spauracchio dei nobili calabresi. Dopo anni passati fra le montagne, stanco di quella vita di pericoli e sangue, decise di tornare nel paese natìo, anche per poter riabbracciare la madre, da anni abbandonata ed odiata da tutti perché madre di un brigante. Un giorno, però, sentì la predica di un frate, e, raccolti i suoi compagni, li esortò a deporre le armi e si ritirò in un luogo solitario fra le montagne, suscitando dapprima l’incredulità e successivamente il dubbio dei suoi compagni (che erano per altro consci del fatto che non sarebbero potuti entrare nel paese senza l’aiuto delle armi), i quali lo raggiunsero e lo denunciarono ai nobili che gli si lanciarono addosso crivellandolo a morte; coprirono poi il suo corpo con dei sassi e lo abbandonarono.

La notizia della morte di Nino corse molto velocemente e giunse sino alle orecchie della madre che, profondamente affranta, andò con i nobili a recuperare sui monti il cadavere del figlio. Rimosse con le sue mani il mucchio di sassi e, come per incanto, trovò il corpo del suo figliolo ancora intatto, bello e roseo, come se fosse addormentato: le ferite sembravano petali di fiori, il suo volto calmo e rassegnato in un’espressione di pace eterna. Il corpo fu poi condotto presso la casa della madre che non ebbe però il coraggio di seppellirlo e lo depose così sotto la grande botte della sua cantina, per poterlo vedere sempre. Dopo dei mesi che il cadavere era stato posto lì, un giorno, la povera donna, non riuscì a spostare la botte e ne rimase profondamente sorpresa, poiché quell’anno non aveva fatto vino; in seguito l’aprì e notò che da essa zampillava invece un ottimo vino, che subito distribuì a chiunque lo richiedesse; notò poi che tale botte si riempiva costantemente, quasi fosse una fontana. Era tuttavia amareggiata, perché non poteva più vedere il volto del figlio, nascosto dietro la botte. Fece dunque chiamare un bottaio per far togliere il tappo della botte e capire quanto vino contenesse: uno spettacolo meraviglioso si presentò agli occhi del bottaio e della vecchia madre: in fondo alla botte era disteso, fresco e intatto, come se dormisse, il corpo di Nino Martino e da una delle sue ferite vicino al cuore era nata una pianta di vite che egli alimentava col suo sangue. Portava sui tralci una miriade di grappoli sempre maturi che si rinnovavano tutte le volte che la donna spillava il vino.

Fu a causa di ciò che a Nino Martino venne in seguito dato l’appellativo di “Santo”, il santo dell’abbondanza, invocato dalla gente quando si calpestano i grappoli dell’uva, perché, attraverso il suo sangue, faccia avere abbondanza del prezioso liquido.

 Vissuto nel ‘500, se ne contendono i natali e le gesta sia la provincia di Reggio che quella di Cosenza (anche se le ragioni di Reggio sono storicamente maggiormente fondate).   Nino Martino fu talmente celebre che intorno alla sua figura fiorirono storie, ballate e racconti, come ad esempio una celebre ballata in dialetto silano, di cui riportiamo una celebre strofa:

“Chi si vò fari surdatu riale
Jisse ‘n campagna cu Ninu Martinu;
A viveri u li porta alle funtane,
Cà appriessu li va l’utru cu lu vinu.”

I briganti, come i santi o i martiri, combattono contro la violenza, la prepotenza, la degenerazione dei costumi, i soprusi imposti dalla legge. Quella di Nino Martino è una ribellione alla negazione della dignità umana agli umili, ai contadini, costretti a vivere una vita bruta e sopportare qualsiasi avversità con rassegnazione, poiché il dolore accompagnava il naturale svolgersi della loro misera vita. Quello che non riuscì ad ottenere da vivo, lo ottiene da morto, con la sua santificazione da parte di chi lo aveva prima deriso e poi perseguitato, un santo del popolo e fra il popolo, e non della Chiesa.

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