Tra i diversi autori che si sono occupati del gioco del poker, una menzione sopra ogni altro merita Dante Alighieri, anche se il suo contributo sull’argomento fu ispirato da un profondo senso critico e di condanna.
Il fenomeno religioso, infatti, condizionò fortemente il suo percorso letterario e di vita, portandolo a condannare senza appello il gioco ed i giocatori.
Nondimeno non si può trascurare la testimonianza che ci ha lasciato attraverso la sua opera massima o negare la straordinaria valenza poetica delle sue rime.
Alcuni critici della letteratura del ‘300 convinti che Dante ignorasse lo stretto rapporto che c’era sempre stato tra poker e Chiesa, si sono chiesti come il Sommo Poeta si sarebbe comportato se egli avesse avuto conoscenza di ciò.
Altri critici sono, invece, del parere che Dante sapesse tutto e che, ciò nonostante, data la sua militanza guelfa, avesse volutamente “dimenticare” certi fatti.
Nella Divina Commedia l’Alighieri ci descrive il suo viaggio immaginario nell’aldilà.
L’Oltretomba è suddiviso in tre zone: Inferno, Purgatorio e Paradiso.
In esse Dante ritiene che tutti gli uomini, alla loro morte, vi si trasferiranno per l’eternità.
Dante, naturalmente, colloca tutti i giocatori all’Inferno.
In questo capitolo si parlerà, pertanto, esclusivamente di questo settore dell’oltretomba.
Si ritiene infatti che il lettore non possa essere minimamente interessato alle altre zone, nelle quali le anime che vi risiedono sono quasi esclusivamente impegnate in pratiche contemplative.
Sulle rime e le rappresentazioni allegoriche della Commedia, critici e commentatori hanno lasciato svariate interpretazioni, seguendo dei percorsi talvolta forse troppo soggettivi e giungendo a interpretazioni discutibili.
In questo libro si è voluto invece riportare solo i fatti narrati, ripercorrendo alcuni passi salienti dell’opera e commentando ora i versi, ora le circostanze più rilevanti, lasciando al lettore che lo desideri, la facoltà di andare alla ricerca di altre interpretazioni.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai in una selva oscura
ché la diritta via era smarrita
e avanti
…. che nel pensier rinnova la paura.
Già dalle prime rime non si può non costatare la chiara connotazione dell’Opera: non vi è alcun dubbio che Dante, uomo pio, con nessuna dimestichezza con gli ambienti di gioco (allora notoriamente poco illuminati), rappresenti i luoghi in cui esso viene praticato, simile a quello di cui sta per varcarne la soglia: una selva buia che incute timore e che rappresenta la cattiva strada (quella, appunto, del gioco).
Nel suo viaggio, il Poeta incontra subito una lonza, un animale simile alla lince e che tutti i maggiori commentatori sono concordi nell’identificare con il gioco delle carte.
Subito dopo incontra un leone, che vuole rappresentare il giocatore esperto (oggi sarebbe definito squalo, ma all’epoca le conoscenze sugli squali erano scarse).
Infine s’imbatte in una lupa.
Qui le interpretazioni sono controverse, ma la più accreditata vuole che in essa sia rappresentato il dealer, che all’epoca, nelle bische clandestine, era spesso una femmina di malaffare.
E così la triade si può ritenere completa.
Già queste allegorie, come altre a seguire, dimostrano come Dante, se mai ce ne fosse bisogno, pur non essendo un giocatore, fosse tuttavia ben documentato.
Quindi più avanti:
Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore
per me si va nella perduta gente.
Si fa ancora più evidente la convinzione del Poeta che qualsiasi luogo dedicato al gioco non può che essere un luogo di dolore (Dante non concepiva il gioco come divertimento), luogo peraltro frequentato da gente considerata “perduta” (perché tali considerava appunto i giocatori).
Lasciate ogni speranza o voi che entrate
Dante dà un’ulteriore conferma della sua idea che il gioco rappresenti solo una perdita di tempo e di denaro.
Il Poeta, nel suo viaggio, descrive l’applicazione della legge vigente nell’Inferno secondo la quale i dannati sono costretti a fare cose che in vita detestavano o, comunque, sono destinati a trovarsi in situazioni che rappresentano il contrario di ciò che avevano amato fare in vita.
Giunto sulle sponde del fiume Acheronte, attraverso cui si entra nell’Inferno, Dante si sofferma sulla descrizione degli ignavi, cioè coloro che nella vita furono sempre riluttanti nel prendere decisioni e nei quali si possono riconoscere tutti quei soggetti che usano dire “telefonami quando organizzate una giocata” per poi declinare, sistematicamente, l’invito adducendo le giustificazioni più ridicole.
Bisogna tuttavia prendere atto che il Poeta, nonostante il suo atteggiamento di rifiuto del gioco, intuisca comunque come la gente appartenente alla suddetta categoria non sia meritevole nemmeno di un luogo ben definito, sia esso bello o brutto, in cui trascorrere l’eternità.
Dante, dovendo attraversare il fiume, usufruisce di un passaggio da tale Caronte, che aveva, all’epoca, l’esclusiva del traghettamento.
Il traghettatore, come compenso, pretendeva dai suoi clienti una fiche da gioco, che naturalmente Dante non possedeva.
Fortunatamente Virgilio, suo compagno di viaggio, gliene prestò una.
L’episodio si rifà, evidentemente, all’antica a tradizione, che voleva che si mettesse una fiche nella tomba dei giocatori defunti, affinché essi potessero pagare il pedaggio per il traghettamento nell’oltretomba.
Quindi, attraversato il fiume, i due saggi uomini giungono alla reception dell’inferno, alla cui direzione c’era Minosse, fondatore, nell’isola di Creta, della prima casa da gioco della storia (da cui, narrano gli storici, era quasi impossibile uscire).
Egli assegnava ai dannati le varie destinazioni, costituite sempre da luoghi di forma circolare, appunto per ricordare perennemente ai dannati quei tavoli da gioco che li avevano portati alla perdizione.
Dante scopre subito Elena di Troia, riguardo la quale si è già parlato in precedenza quando, in vita, abitava a Sparta ed era sposata con Menelao.
Accanto a lei Cleopatra, altra giocatrice d’eccezione dell’antichità.
Entrambe sono costrette a giocare completamente coperte dalla testa ai piedi, con una specie di burka, quale estrema punizione per aver giocato, in vita, con abiti estremamente succinti, al fine di distrarre dal gioco gli altri giocatori.
Dante incontra più avanti gli avari e i prodighi.
E’ interessante notare, ancora una volta, come Dante, nonostante la sua lontananza dal mondo del gioco, riesca tuttavia a dare a tali soggetti una giusta collocazione post mortem.
Gli avari sono quelli che erano sempre riluttanti in vita a mettere soldi nel piatto, anche se con ottime mani, per paura di perdere: essi sono condannati a pagare i bui ed i contro bui ad ogni mano.
I prodighi (oggi verrebbero chiamati polli) sono invece quelli che usavano elargire fiches all’avversario di turno, andando a chiamare le puntate più assurde, sempre in attesa dell’ultima carta.
Essi sono condannati a giocare in tavoli nei quali il dealer mette sul tavolo solo quattro carte, quasi dimenticandosi di distribuire la quinta.
I poveri dannati guardano il dealer in trepidante attesa, ma questi dichiara anticipatamente conclusa la giocata, e così per tutte le mani, per l’eternità.
Viene quindi superato lo Stige, altro fiume infernale, nelle cui acque Dante vede gli iracondi (quelli che in vita si arrabbiavano se non avevano carte buone) e gli accidiosi (quelli che, quando non avevano carte buone, dicevano di annoiarsi).
Essi sono circondati da coppie di assi e di K ma, appena le carte arrivano nelle loro mani, irrimediabilmente sfuggono loro per affondare nel fiume.
Nei pressi c’è la città di Dite, che ospitava gli eretici, quelli, cioè che non accettavano le regole tradizionali e, ad ogni torneo, volevano mettere regole sempre nuove.
Essi sono condannati a giocare tornei infiniti in cui, non appena hanno una mano buona, il dealer cambia la scala dei valori dei vari punti, sempre a loro discapito.
Dopo un burrone, Dante e Virgilio giungono poi presso un altro fiume (tanto per smentire quelli che credono che all’Inferno vi siano solo fiamme), in cui scorre sangue bollente, al posto di acqua fresca.
A parte l’incontro con il Minotauro, che comunque, in vita, non giocò mai a poker (nessuno ci voleva giocare a causa del suo aspetto), i viaggiatori s’imbattono nei violenti, cioè quei giocatori che, in vita, dicevano che non si divertivano a giocare se non c’era sangue. Ed essi sono, infatti, condannati a galleggiare nel sangue, in eterno.
Sulle rive soggiornano i suicidi, quelli cioè che, pur non avendo carte adeguate, avevano troppo spesso l’abitudine di mettersi in piatti nei quali erano statisticamente perdenti, per poi dire alla fine, agli amici che gli chiedevano come fossero usciti dal torneo: mi sono suicidato.
La loro punizione è l’unica eccezione alla regola infernale.
Infatti essi continuano a fare da morti ciò che facevano da vivi: continuano a suicidarsi.
Nelle vicinanze Dante colloca pure i bestemmiatori: una particolare categoria di giocatori solita imprecare e bestemmiare in caso perdano una mano.
Essi sono condannati a giocare accanto ad altri giocatori che bestemmiano più di loro.
Continuando il suo viaggio Dante incontra i fraudolenti (quei giocatori che in vita giocavano in collusione con altri).
La loro pena è quella di non riuscire a trovare nessuno con cui mettersi d’accordo.
Più avanti ci sono quindi i simoniaci (quelli che riconoscevano le carte o, peggio, le chiamavano) tra i quali Dante, che evidentemente non concepiva l’inganno come regola di gioco, pone ingiustamente Ulisse, sol perché fu uno dei più astuti giocatori dell’antichità.
Si arriva quindi ai sodomiti, una specie particolare di prodighi, i quali in vita, se la prendevano sempre a male e ci godevano pure, mentre ora se la prendono lo stesso, ma non godono più.
Dante incontra quindi i falsari (di carte), i seminatori di discordie (quelli che seminavano zizzania nei tavoli da gioco) e quindi i traditori, cioè coloro che non rispettavano gli accordi presi in precedenza e che sono rigorosamente suddivisi secondo chi hanno tradito.
Qui il poeta colloca persino un arcivescovo (tale Ruggeri), di cui evidentemente Dante doveva conoscere la sua attività di giocatore.
E’ interessante notare che quest’ultima circostanza venga interpretata, da parte di taluni, come prova della tesi secondo cui Dante sarebbe stato consapevole della consuetudine del gioco negli ambienti ecclesiastici e, nello stesso tempo, anche da quelli che sostengono la tesi opposta, affermando che tale ipotesi sarebbe appunto suffragata dalla pena esemplare assegnata all’alto prelato.
A questi dannati la punizione peggiore: sono condannati ad avere al loro fianco un altro giocatore, solitamente un sodomita o un prodigo, il quale racconta loro, minuziosamente, tutte le mani che ha perso nella sua vita passata, iniziando dalla posizione occupata al tavolo, proseguendo con la descrizione delle proprie carte, delle dichiarazioni di gioco di tutti i suoi avversari, all’elencazione di tutte le carte servite dal dealer, nell’esatta sequenza in cui esse sono apparse sul tavolo, per finire poi con l’ultima carta (il famigerato river [1]) con la quale avrebbe poi perso il piatto.
E tutto ciò ripetutamente, tutte le ore del giorno e della notte, per tutti i giorni della settimana, per tutte le settimane, i mesi, gli anni, per l’eternità.
Onestamente, per quanto colpevole possa essere ritenuto un giocatore di poker, pare che Dante, nell’occasione, abbia voluto dare un po’ sfogo a qualche suo istinto sadico.
Comunque, dopo qualche peripezia, Dante e Virgilio escono dall’Inferno ed il Poeta afferma:
“e ritornammo a riveder le stelle”.
[1] river. nel texas hold’em, l’ultima carta comune ad essere esposta dal dealer sul tavolo
Saverio Spinelli