Nell’Ottocento sorsero diverse scuole.
Ricordiamo quella di Friedrich Nietzsche, il fautore del gioco aggressivo e temerario, con la mitizzazione della figura del cosiddetto super-giocatore, colui che faceva tremare il tavolo.
Le sue idee ispirarono diversi soggetti anche in epoche successive, sebbene adesso sia ormai idea consolidata che chi gioca da maniaco potrà sì ottenere qualche risultato nel breve periodo ma, prima o poi, finirà male.
Altro pensatore di rilevo su Freud che fondò una scuola nella quale furono, per la prima volta, discussi gli aspetti psicologici del gioco.
Egli partiva dal presupposto che i vari stili di gioco ed addirittura le singole giocate fossero condizionate da motivazioni di ordine sessuale.
In base alla sua teoria il giocatore vedeva nella figura del dealer la madre, punto di riferimento dell’infanzia, e nelle fiches le donne.
Lo stesso Freud fu un grandissimo giocatore, da tutti temuto per la sua capacità di scavare nell’intimo di ogni avversario, di cui riusciva a carpire le intenzioni e spesso anche il valore delle carte in mano.
Suo avversario fu Young il quale, pur essendo un assertore della validità della teoria psicologica nel gioco, non dava invece molta importanza al sesso come impulso determinante nei vari comportamenti.
Gli aspetti psicologici nel poker saranno approfonditi più aventi in un apposito capitolo.
Il pragmatico Charles Sanders Peirce intuiva invece come nel giocatore, durante il gioco, si assistesse ad un continuo scontro interiore, tra il credere che l’avversario avesse chiuso un punto o no, sul dilemma se chiamare una puntata o meno, sull’opportunità di rilanciare o passare, insomma tra dubbio e convinzione.
Agli inizi del 900 la scienza ricoprì un ruolo determinante nel pensiero umano e naturalmente ciò ebbe forti ripercussioni anche nel gioco del poker.
Nota a tutti fu la frase di Albert Einstein “Dio non gioca a dadi”, che diede, a quei tempi, uno scossone alle idee religiose che ritenevano blasfemo il fatto che anche Dio potesse preferire il poker.
Ad Einstein si deve il concepimento della rivoluzionaria teoria della relatività.
Einstein intuì come, nel poker, una qualsiasi combinazione di carte in mano non abbia un valore assoluto, bensì esso sia da valutare nel contesto della mano giocata; in pratica il punto ha sempre un valore relativo.
Dopo la divulgazione della teoria della relatività, a poco a poco, si fece strada la consapevolezza che, anche con un poker in mano, non si può essere sicuri di vincere al 100%, in quanto un avversario potrebbe avere un gioco più forte.
Questa teoria, apparentemente semplice, scombussolò il mondo e le credenze che fino ad allora erano state alla base dello stile di gioco di milioni di giocatori.
E da qual momento tutti i giocatori più capaci prestarono molta attenzione e non giocarsi tutto sol perché avevano in mano un punto fortissimo.
Infine uno scienziato, Max Planck, rese evidente il fatto che il giocatore non deve pensare di poter vincere tutto e subito, ma che è opportuno che pensi invece a crearsi uno stack [1] un po’ alla volta, fiche dopo fiche.
Ciò perché un grande stack in fondo è composto da tante piccole fiches.
La sua teoria è nota come “teoria dei quanti”.
[1] stack: l’ammontare delle fiches possedute da un giocatore
Saverio Spinelli