Strage di Gioia Tauro: cronaca di un giallo che si trascina da 44 anni

StrettoWeb

Il 22 Luglio del 1970 il treno direttissimo Palermo-Torino, chiamato treno del Sole, subì un deragliamento nei pressi della stazione di Gioia Tauro. Non fu un incidente causale, ma provocato. Un attentato in piena regola. Ci sono voluti, però, 44 anni per arrivare a questa verità. Tra indagini, processi, perizie, rilevamenti ambientali e deposizioni, il lavoro della magistratura si è scontrato con il muro dell’omertà di chi sapeva ma non parlava, con la reticenza di chi si è macchiato le mani di sangue per compiere la propria scalata sociale, lecita o illecita che fosse, in una provincia, quella di Reggio, che all’epoca era viziata da gruppi di fanatici belligeranti, facili da corrompere e ben invischiati in una rete di favoritismi che nell’ottica del ‘do ut des’ trovava modo di arricchirsi a qualunque costo.

L’episodio del deragliamento del treno si inseriva in un clima rovente per la provincia reggina: nell’estate di quell’anno, 1970, la parte meridionale della regione calabrese era in balia della rivolta di Reggio causata dalla nomina di Catanzaro a capoluogo di regione a discapito della città dello stretto. La rabbia di molti cittadini reggini sfociò nella proclamazione dello sciopero cittadino il 13 luglio, passato ai posteri come ‘la rivolta di Reggio’. Il deragliamento del treno del sole avvenne una sola settimana dopo.

Ricordiamo i fatti. Alle 17.10 del 22 luglio 1970 il treno proveniente da Villa S.Giovanni dopo aver traghettato alle 14:35, stava entrando in stazione a circa 100 km/h quando il macchinista Giovanni Billardi e l’aiuto macchinista Antonio Romeo avvertirono un forte sobbalzo della locomotiva. Conseguentemente azionarono il freno rapido di emergenza. La frenata avvenne regolarmente per le prime cinque carrozze, finché le sollecitazioni meccaniche spinsero uno dei carrelli della sesta carrozza fuori dalla sede dei binari. Le carrozze successive sviarono anch’esse nel corso dei 500 metri di frenata; durante la brusca decelerazione alcuni ganci di trazione si spezzarono e il convoglio si divise in tre tronconi.

Il treno trasportava circa 200 persone, tra cui un gruppo di 50 pellegrini diretti a Lourdes. Il bilancio finale della tragedia fu di 6 morti e più di 70 feriti, di cui molti in gravissime condizioni. Tutti i deceduti si trovavano tra la nona e l’undicesima carrozza. Il misterioso sobbalzo era avvenuto nel breve tratto tra il cavalcavia delle Ferrovie Calabro Lucane e il gruppo di scambi all’ingresso in stazione di Gioia Tauro, a 750 metri dall’ingresso delle piattaforme di stazione. Le indagini presero subito il via. E come da routine, inizialmente si parlò di un guasto meccanico o un errore umano. Venne anche considerata l’ipotesi di un cedimento strutturale, del binario o dei veicoli.

Il questore Santillo identificò le cause del deragliamento con “lo sbullonamento del carrello n°2 del corpo della nona vettura”. L’ipotesi che si trattasse di un attentato e non di un errore umano emerse tra i più sagaci, ma fu insabbiata in parte per fini politici.

Il collegio di periti a cui venne richiesto un parere tecnico consegnò la relazione dopo un anno, il 7 luglio 1971, relazione in cui si escludeva che la causa dell’incidente potesse essere attribuita a errori umani o fattori tecnici. La tesi dell’esplosivo, invece, era confermata dal fatto che un tratto della rotaia lato monte, a circa 20 metri di distanza dalla “travata metallica (del viadotto) al km 349-827” circa era stata divelta e presentava su un tratto di 1,8 metri un’asportazione parziale della soletta interna, indicativo di un atto doloso o di una esplosione.

Passarono altri 3 anni e il 30 maggio del 1974 il giudice istruttore scagionò i dipendenti delle Ferrovie dello Stato precedentemente accusati per errori nel servizio con la decisione di “non luogo a procedere” per “non aver commesso il fatto”. L’inchiesta si chiuse lasciando sul tavolo la tesi dell’attentato dinamitardo come semplice ipotesi, per quanto la più probabile. Ipotesi “destinata a restare nel limbo delle congetture”, in quanto “non è agevole ritenere, alla luce dell’umana esperienza, che la detonazione prodotta dalla carica esplosa sul binario nel pomeriggio del 20 luglio 1970 trovatansi in prossimità della stazione ferroviaria di Gioia Tauro”.

Anni ’90. A partire dal 16 giugno 1993 due pentiti della ‘Ndrangheta cominciarono a deporre le proprie testimonianze di fronte al Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Vincenzo Macrì nell’ambito della maxi inchiesta Olimpia 1, volta a far emergere la rete di rapporti tra politica e criminalità organizzata in Calabria. Stando alle loro affermazioni, nel 1970 in Calabria si erano formate alleanze strategiche tra criminalità organizzata, eversione nera e altri esponenti di diversi movimenti estremisti. Uno dei due “pentiti” era Giacomo Ubaldo Lauro che sarebbe divenuto un testimone chiave nella vicenda dell’attentato di Gioia Tauro.

Proprio Lauro dichiarò il 16 giugno 1993 di avere avuto rapporti con Vito Silverini, un fascista fanatico vicino ai vertici del Comitato d’Azione che in quel periodo stava infiammando i moti di Reggio, nonostante fosse analfabeta. La testimonianza di Lauro venne confermata il 30 novembre 1993 da un altro pentito, Carmine Dominici, esponente di punta di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria fra il 1967 ed il 1976. Dominici era anche stato uno degli uomini di fiducia del marchese Felice Genovese Zerbi, proprietario di numerose terre, ma soprattutto dirigente di Avanguardia Nazionale. Malavitoso comune, oltreché attivista politico, Dominici era stato condannato ad una lunga pena detentiva ed aveva deciso di collaborare con la magistratura.

Il 30 novembre 1993 Dominici confermò le parole di Giacomo Lauro. Anche Dominici, come Lauro, si era trovato nella cella numero 10 del carcere di Reggio Calabria, in compagnia di Vito Silverini. Dalle deposizioni, secondo l’accusa, appariva chiaro il quadro dei presunti mandanti. Tra questi vi erano: Avanguardia nazionale e il Comitato d’azione per Reggio capoluogo, ispiratori della strage. I nomi di Giuseppe Scarcella, Renato Marino, Carmine Dominici, Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giovanni Moro figuravano tra gli esecutori materiali dell’attentato, definiti “il braccio armato che metteva le bombe e faceva azioni di guerriglia” per conto del Comitato Ciccio Franco, consigliere comunale missino e sindacalista CISNAL dei ferrovieri, che era emerso come ispiratore della rivolta; Renato Meduri consigliere comunale (poi senatore) e l’ex consigliere provinciale Angelo Calafiore, entrambi missini; Paolo Romeo, all’epoca 23enne in Avanguardia nazionale e poi deputato del Partito Socialista Democratico Italiano Fortunato Aloi, poi parlamentare missino; Benito Sembianza e Felice Genoese Zerbi, dirigenti del Comitato; “il commendatore Mauro” “quello del caffè” ovvero Demetrio Mauro proprietario dell’onomimo stabilimento, e l’imprenditore Amedeo Matacena senior, “quello dei traghetti”, finanziatori che “davano i soldi per le azioni criminali, per la ricerca delle armi e dell’esplosivo”.

L’istruttoria iniziata nel luglio 1995 si concluse con il proscioglimento di tutti i presunti finanziatori e i mandanti politici, che sostennero la (ormai esclusa) tesi dell’incidente ferroviario, conducendo un’intensa campagna denigratoria nei confronti dei “magistrati di sinistra”.

Anni 2000. Con la riapertura del processo in seguito alle deposizioni dei pentiti, la Corte d’Assise di Palmi (RC) nel febbraio 2001 emise una sentenza di condanna per gli esecutori della strage, compiuta con esplosivo. Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella, imputati riconosciuti colpevoli erano però tutti e tre già deceduti.

Vennero aperte nuove inchieste sui presunti mandanti. Lauro il 19 aprile del ’96 venne processato per aver fornito l’esplosivo nell’ambito della sua attività di uomo della ‘ndrangheta, iniziata nel 1960 e conclusasi nel 1992 con l’arresto. Venne assolto dalla Corte d’Assise il 27 febbraio 2001, per “mancanza di dolo”, sentenza confermata il 17 marzo 2003 dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria. Per Lauro erano stati chiesti 24 anni di carcere.

All’atto della chiusura del processo per la strage, nel gennaio 2006, l’unica condanna emessa nei confronti di uno dei coinvolti ancora vivente fu quella di “concorso anomalo in omicidio plurimo” a carico di Lauro: il reato però era estinto per prescrizione. Il giudice Salvini, nella sua sentenza di condanna verso alcuni esponenti di Avanguardia Nazionale, sostenne la necessità di riaprire l’inchiesta sugli “Anarchici della Baracca” periti nell’incidente d’auto, forse provocato ad arte per eliminare testimoni scomodi tra cui Giovanni Aricò, uno di essi, che aveva confidato al cugino di essere in possesso di documentazione riguardante l’attentato…

…Quella della strage di Gioia Tauro è, purtroppo, una delle tante storie all’italiana, di insabbiamento giudiziario e di lentezza amministrativa che danneggia i buoni e gli onesti agevolando invece i corrotti; è una cronaca ancora in fieri con delle pagine bianche da riempire, e che possono essere completate solo con la determinazione di audaci uomini di legge di cui, per fortuna, la Calabria è piena a dispetto di tutto e tutti.

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