Caratteristica di quel periodo fu però la brevissima durata dei governi, che restavano in carica anche solo pochi mesi.
Ma c’era un motivo determinante per questa instabilità.
I politici di allora avevano stabilito, naturalmente senza dare alcuna pubblicità alla cosa, di dirimere ogni loro controversia al tavolo da poker.
E ciò accadeva molto spesso.
Per l’alto numero dei concorrenti, si decise di giocare la variante texas hold’em, che tanto efficace si era rivelata nel corso della storia, in tante altre occasioni.
Il vincitore del torneo principale diventava Presidente del Consiglio, ma erano previste diverse altre posizioni a premio, in base alle quali veniva stabilito chi dovesse diventare ministro o sottosegretario.
La circostanza che, per molti anni, i vincitori fossero spesso gli stessi dipendeva dal fatto che era stato stabilito che il numero delle fiches di partenza fosse proporzionale ai voti ottenuti alle elezioni.
E’ evidente, quindi, che i soggetti appartenenti ai partiti maggiori fossero in grande vantaggio rispetto agli altri.
In ogni caso, alcuni tornei minori, con un buy in [1] (quota di partecipazione) più abbordabile, erano lasciati anche ai giocatori meno forti e, comunque senza distinzione di partito.
Alla fine, quindi, più o meno tutti avevano la possibilità di partecipare, con grande soddisfazione generale.
Questo fenomeno si chiamò consociativismo, che durante la seconda Repubblica, diventò però una parolaccia.
Altra caratteristica del gioco di quel periodo era la consuetudine che la quota d’iscrizione ai tornei principali (che, per ovvi motivi, era altissima), venisse pagata da imprenditori amici dei giocatori stessi, in cambio di tangibili dimostrazioni di riconoscenza.
[1] buy in: la quota da pagare per l’iscrizione ad un torneo
Saverio Spinelli