A questo punto gli ostacoli principali al progetto della realizzazione dei grandi tornei di poker nazionali erano rappresentati dal Regno di Napoli e dallo stato Pontificio.
Il Papato riteneva che i grandi tornei dovessero restare una prerogativa della Chiesa, come, di fatto, almeno a livello ufficiale, era ormai da quindici secoli.
A Sud c’era invece il problema che Re Ferdinando aveva inibito ai suoi sudditi l’uso delle carte francesi, consentendo l’utilizzo esclusivo delle carte napoletane, a parte una deroga alla Sicilia, in cui era consentito l’impiego delle carte siciliane (peraltro molto simili alle napoletane).
Il problema era di difficile soluzione per via diplomatica, per cui Cavour ritenne che solo con un atto di forza lo si potesse definire.
Fece quindi convocare al palazzo Giuseppe Garibaldi, un giocatore nato a Nizza che aveva una grande esperienza internazionale in varie discipline.
Garibaldi, che aveva giocato perfino in Sud America, meritandosi l’appellativo di “player dei due mondi”, ricevette l’incarico di organizzare in Sicilia un grande torneo dimostrativo di poker, naturalmente all’insaputa della monarchia Borbonica.
Cavour confidava nell’appoggio o, quantomeno, nell’indifferenza delle altre potenze.
In cuor suo era inoltre fiducioso nell’appoggio da parte della popolazione meridionale nella quale, così gli era stato riferito da agenti segreti infiltrati nel territorio, si faceva sempre più forte il desiderio di poter usare anche le carte francesi.
Garibaldi volle fare le cose in grande e partì da Quarto con circa 1000 persone, tra giocatori, dealer e direttori di sala, tutti vestiti con camicie rosse.
Arrivati a Marsala, anche grazie all’aiuto della Marina Inglese, che aveva contribuito con 800 mazzi di carte ed una buona dotazione di fiches, i Mille furono accolti dalla popolazione con grandissimo entusiasmo.
Garibaldi era andato in Sicilia per fare un torneo dimostrativo, invece si ritrovò sommerso da una miriade di richieste di partecipazione, cosa che scombussolò tutti i suoi piani originari.
Marsala era assolutamente inadeguata per ospitare un torneo delle proporzioni che si stavano delineando e così il gruppo, che diventava di giorno in giorno più numeroso, decise di spostarsi a Palermo, che certamente offriva migliori prospettive.
Ma la Sicilia non aspettava altro: ovunque Garibaldi passasse, riceveva richieste d’iscrizioni, il che, se da una parte faceva piacere, dall’altra complicava la già difficile situazione.
Per farla breve, dietro Garibaldi si formò un vero e proprio esercito di giocatori, tanto che gli aspetti organizzativi cominciarono a sembrare insormontabili.
Accogliendo i suggerimenti della compagna Anita e del fedele Nino Bixio, decise di prendere tempo con la scusa di cercare una località più adatta per lo svolgimento del torneo e passò in Calabria.
Qui trovò la popolazione già in sua attesa e che, al suo passaggio, inneggiando alle camicie rosse, bruciava mazzi di carte napoletane in segno di spregio nei confronti dei Borboni.
Era il segnale che il Regno di Re Ferdinando era giunto al capolinea.
Garibaldi, partito come organizzatore di un torneo dimostrativo, era diventato l’eroe che aveva liberato il Regno di Napoli dal monopolio delle carte napoletane.
A quel punto, spinto dall’entusiasmo, l’Eroe pensò bene di proseguire verso Roma, nella speranza di coinvolgere anche la popolazione dello Stato Pontificio.
Ma Re Vittorio Emanuele, che aveva una pratica in corso giusto in Vaticano, gli intimò di fermarsi riferendo allo stesso che per il Papa i tempi non erano ancora maturi.
Garibaldi disse “obbedisco”, ma ci restò così male che si ritirò subito dopo a Caprera e da qual momento, testimoniano gli storici, per l’amarezza giocò solo a burraco.
Saverio Spinelli