Ora, di là dalla polemica, poiché Messina non naviga nell’oro è legittimo chiedersi quale fondamentale funzione abbia svolto sinora l’ente camerale, un ente che annualmente incassa quote per l’iscrizione al Registro Imprese. Non sarebbe peraltro errato inquadrare l’eventuale accorpamento con Catania in una prospettiva ad ampio respiro, valutando la dimensione nazionale del problema.
Partiamo da un presupposto allora: il Governo Renzi mira alla soppressione delle Camere di Commercio in tutta Italia. E’ una vecchia battaglia del rottamatore: possiamo discuterne il merito e l’opportunità, ma l’Esecutivo ha messo il tema all’ordine del giorno, per cui con esso bisogna fare i conti.
Il perché è presto detto: nell’ambito delle linee-guida stabilite dalla spending review, tali realtà sono considerate voci di spesa fini a se stesse, utili per alimentare il sottobosco governativo. Stipendi e pensioni d’oro stanno lì a testimoniarlo. Il problema, allora, non è prettamente regionale, come lasciano intendere esponenti delle più svariate realtà associative: lo diventa, semmai, in nome dell’autonomia, poiché la Sicilia – lungi dall’accettare la scure romana – ha optato per una rivisitazione della Camere esistenti, con una riduzione da 9 a 3 sul territorio isolano.
L’obiezione è scontata: come fa una città metropolitana a vivere senza la Camera di Commercio? La risposta dell’Esecutivo è semplice: fa, valorizzando l’agenzia dell’entrate e rivisitando le funzioni ad essa conferite. Non a caso sul punto Confindustria ha adottato un low profile, mentre i sindacati hanno evidenziato come il ventilato accorpamento possa essere un’occasione per spiccare il volo: “non esistono più le condizioni per stare da soli. Non abbiamo le potenzialità economiche per farlo. E solo chi vive quotidianamente la vita dell’Ente camerale può saperlo” dicono in coro i lavoratori. Precisazioni che non sembrano scaldare il cuore di chi vede in Piazza Cavallotti il nuovo passaggio delle Termopili.