Il grande cambiamento si ebbe negli anni ’60, quando la televisione divenne popolare, tantissimi giocattoli cominciarono ad essere costruiti e venduti e le macchine cominciarono ad essere ovunque.
Quando ero bambino abitavo in periferia e si giocava essenzialmente per strada. Ogni gruppo di bambini viveva in una porzione ben definita di strada, possibilmente un vicolo, il loro territorio. Ogni estraneo, e per estraneo si intendeva solo uno che abitava a duecento metri di distanza, veniva guardato con curiosità, ma anche con un certo sospetto.
Ogni territorio aveva le sue regole. Anche i giochi più comuni differivano nelle regole tra una zona ed un’altra.
Il mio territorio era lo “stretto”, ma non lo stretto di Messina, che si poteva vedere dalle terrazze, ma lo stretto della chiesa dell’Itria, meglio conosciuta come la “chiesa con le catene”, nel quartiere di Sbarre, zona Sud di Reggio Calabria, dove ho vissuto fino all’età di 10 anni. Lo stretto era un vicolo in terra battuta lungo un centinaio di metri. Nella parte iniziale costeggiava un lato della chiesa, per dissolversi alla fine in un viottolo che si addentrava nei “giardini” (che in effetti erano un orto). Lo stretto, dopo l’orario di scuola era popolato da tantissimi bambini. Nello stretto non passava mai una macchina. Oggi quel vicolo si chiama via ed ha persino i semafori. Di ciò che c’era è rimasto proprio niente, a parte la chiesa, che una volta mi sembrava imponente ed oggi invece scompare tra una moltitudine di palazzi che sovrastano persino il campanile, che allora mi sembrava toccasse il cielo.
Ed allora, mentre la maggior parte dei bambini continuava a correre lungo il bordo del condotto incitando a squarciagola Algida, Eldorado, Sovrana, Alemagna ecc. ecc. (ogni ligneddu aveva un nome, quello della marca del gelato, stampatovi sopra) , uno o due rimanevano sconsolati alla fine della parte sotterranea del condotto, aspettando, spesso invano, l’uscita del loro ligneddu.
Infatti il parroco non era di grandi vedute: un giorno, in un caldo pomeriggio di Agosto, durante una partita a pallone tra bambini di sei anni nella piazza della chiesa, chiese che gli venisse consegnata la palla e quindi la bucò con un coltellino. Lo avevamo svegliato, con i nostri schiamazzi, dal sonnellino pomeridiano. La palla era la mia.
Un curioso fatto impegnò tutti i bambini, mi pare nel 1957, ma non saprei dire se ciò avvenne solo di Sbarre o se il fenomeno fu nazionale: qualche buontempone aveva messo in giro la voce che chi avesse consegnato all’AGIP un foglio con il maggior numero di targhe delle FIAT 600 (che allora stava diventando la macchina più popolare), avrebbe vinto un pallone di cuoio numero 5 (il che era l’equivalente di un Ipad oggi). Per un certo periodo gran parte di noi trascurammo i nostri giochi consueti per stare, con un quaderno ed una penna, ai bordi della strada a nare le targhe delle 600.
Probabilmente a Stoccolma era diverso, ma a Sbarre, negli anni ’50, quei giochi, come tutti gli altri, avevano una caratteristica: la totale assenza delle femmine. Le femminucce, infatti, giocavano rigorosamente solo a casa, con la bambole.
Tanto era scontata questa consuetudine che, in occasione dei tanti battibecchi tra bambini di strada, quando qualcuno inveiva contro un altro dicendo “a fissa i ta mamma” oppure “a fissa i to soru”, usciva sempre qualcuno che, giudiziosamente, precisava “ i mammi e i soru lassamuli a casa”.