La nostra identità è il coraggio

StrettoWeb

Ulisse perde la strada di casa perché alcuni dei suoi offendono gli dei, ma anche per lo spirito d’avventura che lo animava, per vedere cosa c’era oltre l’orizzonte. In parecchi  si trasformano in maiali, pur nella tragica coscienza di essere ancora essere umani. Ulisse cede alle lusinghe di donne facili e alle ricchezze che ne gratificano la vanità, facendogli dimenticare da dove è venuto e dove deve andare. Alla fine, si ritrova mezzo affogato e naufrago non lontano da casa, ormai privo di tutto, persino del nome. Ad Itaca, accolto e ospitato da un pescatore, sente narrare da altri la propria storia, proprio come capita a tanti ogni giorno. Piange per i compagni persi durante il viaggio, perché era a loro che aveva promesso il ritorno a casa, fallendo. Lo riconosce solamente il suo cane Argo, mentre le mura domestiche sono invase dai Proci che bevono il suo vino, mangiano il suo cibo, vestono i suoi abiti, insidiano sua moglie, tentano di traviare suo figlio.

E’ proprio vero, tanti calabresi aspromontani sono partiti per cercare lontano il diritto di vivere dignitosamente. Allontanandosi, non si sono persi e, quando sono tornati, hanno trovato altri che hanno usurpato persino il loro nome. Proprio “altri” che a lottare per questa terra non ci sono mai stati o che hanno combattuto colpendoli alle spalle, servi vestiti da principi e imbroglioni vestiti da sacerdoti. Gli esuli sono gli stessi, sono i ragazzi di una volta; l’Aspromonte, ciò che rappresenta, è quello che hanno lasciato. Tante guerre sono finite vinte per gli altri, anziché per noi stessi, per amore di questa terra, casa nostra e dove i nostri figli sono nati.

Non si viaggia che per ritornare, scrivevo tempo fa.  Agli dèi e alle pietre si addice la stasi, alle macchine e agli automi si addice l’andare, agli uomini si addice il tornare. Non riusciremo mai a stare pietrificati in un luogo, non siamo motori immobili come il dio di Aristotele. Ma non siamo nemmeno robot che vanno incessantemente. E’ invece degli uomini il tornare, possedere la patria nell’anima. Ma non si torna mai nella terra perduta o nel tempo perduto. Si torna piuttosto alle origini, a un luogo oltre i luoghi, a un tempo oltre i tempi, dove c’è l’essenza della nostra vita. Lo sforzo che muove al ritorno è la nostalgia, un sentimento straordinario sul piano interiore, che suscita arte e poesia, esalta gli affetti, restituisce l’amore del tempo vissuto e dei luoghi più cari. Muta in rancore e utopia quando vuol farsi sogno di storia e restaurazione. E il nostro Aspromonte non è il passato, è la montagna da cui non potremo mai separarci, come ad una madre.

L’epica del viandante ha due esempi mitici del mondo classico, il viaggio di Ulisse, il vincitore che sogna il ritorno, e il viaggio di Enea, il vinto che sogna di rifondare quel che ha perduto. Odissea e Eneide partono dalla medesima distruzione, la città di Troia. Ulisse vuole tornare nel regno incontaminato delle sue origini, dove abita la sua famiglia, dov’è la sua stirpe, dove vuol riannodare la trama del tempo perduto.

Enea invece quel mondo lo ha ormai alle sua spalle, divorato dalle fiamme, e per lui non resta che salvare il salvabile (suo padre, suo figlio, i penati) e partire verso ignota destinazione in cerca di una patria elettiva, avendo perso la patria nativa. Ma anche il suo viaggio, come quello di Ulisse, è un ritorno. Vuole rifare casa, vuole rifondare la città perduta, e la catastrofe che è alle sue spalle non impone l’oblio ma il sacro rispetto della memoria, incarnata dal vecchio Anchise. Carica sulle sue spalle il peso tremendo e dolcissimo della memoria, porta in salvo suo padre, ormai indebolito, caricandoselo sulle spalle, proprio come faceva suo padre quando lui era bambino. Porta con sé la consorte e il loro figlio con l’intento di consegnargli le chiavi invisibili della città futura ancora da fondare.

Ulisse riesce a fare ritorno e lo strazio di un regno mutato in preda a impostori e sciacalli viene alla fine cancellato dal suo vigore che riabbraccia la sua patria. Ulisse ripristina la vita di un tempo, ritrova la moglie, il suo letto piantato nella terra, suo figlio, la sua servitù, il suo fedele cane Argo, le origini del luogo. Quel che non torna è la gioventù, la sua e quella di Penelope; li aspetta una vecchiaia serena che si concede alla morte, dopo aver compiuto l’opera.

La sorte dei calabresi dell’Aspromonte somiglia più a quella del pio Enea che dell’astuto Ulisse. Non devono tornare ad alcuna patria lontana, un incendio l’ha completamente distrutta. E non possono avvalersi di coloro che non ci sono più, gli abitanti hanno lasciato per sempre le case inondate di acqua e fango e, poi,  avvolti dalle fiamme. Non resta che fondarne una nuova, muniti della memoria, con simboli ed eredi di quel mondo scomparso. Con coraggio, tornare per rifondare e non restaurare, per generare e non ripristinare, per propiziare la nascita e non salvaguardare l’estrema vecchiaia.

Per un popolo silenzioso e pulito, che non si è sporcato le mani, non si è prostituito, non è stato complice, non è salito sul carro dei vincitori, non ha chiesto contributi né benefici, non ha fatto anticamera davanti alle stanze dei poteri, non si è fatto incantare dalle promesse. “Lasciammo alle spalle un passato che allo stesso modo non poteva più tornare.” Afferma lo scrittore meridionalista Gioacchino Criaco nel romanzo mondiale Anime nere. “(…) Ci allettarono col denaro e il miraggio di una vita migliore. (…) Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone (…)”.

Cosimo Sframeli

Condividi