Cultura reggina: perchè diciamo “a tia non ti sarba mancu Caracciolo”

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La salute, lo sappiamo, è una cosa che sta fortemente a cuore un po’ a tutti noi reggini: sovente infatti il nostro vocabolario fa uso di espressioni che afferiscono a tale ambito e tutti magari, in seguito ad una disamina relativa alle sventure che possono essersi abbattute su di noi e che possono comprendere la sfera amorosa, economica, affettiva o lavorativa possiamo servirci, a chiosa di quanto raccontiamo, di un’espressione lapidaria quale la celeberrima: “pensa a saluti!”.  Sappiamo inoltre al tempo stesso come nel contesto storico del Novecento alcune figure professionali di alto livello, quali l’insegnante, l’avvocato, il dottore o il politico, fossero rivestite di un velo quasi di sacralità a momenti non appieno attingibile e comprensibile da parte della comune povera gente, ed un intervento di figure di questo tipo, quasi fossero dei ex machina, era accompagnato da imperiture lodi ed esaltazioni di tali vicende, quali epifanie miracolose appunto.

Tornando tuttavia a trattare lo specifico contesto della sanità, erano noti ai primi del Novecento in tutta la città calabrese dello stretto gli effetti quasi miracolosi di un tale dottor Caracciolo, il quale esercitava la professione di medico presso lo storico Istituto Ortopedico sito nei pressi del Santuario dell’Eremo di Reggio Calabria: essere dunque sotto le cure di tale professionista voleva quindi dire essere davvero invischiato in una situazione molto grave, nella quale pertanto solo l’azione di questo grande luminare poteva comportare la salvezza: deriva dunque proprio da ciò quell’espressione, comune ad ogni reggino che si rispetti, che recita lapidaria: “a tia non ti sarba mancu Caracciolo!”; con ciò dunque, si intende dire: “rischi davvero grosso, nemmeno un’azione estrema può salvarti!”

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