“Ela elamu kondà”: alla scoperta di una antichissima poesia in grecanico

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Un piccolo frammento di poesia calabrese: “Ela elamu kondà”

Roghudi vecchiaE’ noto a tutti: ogni tradizione culturale e popolare che si rispetti ha dei propri miti, delle proprie consuetudini, dei propri canti e dei propri stornelli: a ciò non va senza dubbio eccettuata la Calabria e, specificamente, la sua area grecanica. Giova infatti ricordare come tra i monti e le valli che si stendono tra i piccoli paesi aspromontani di Palizzi, Bova o San Lorenzo sorga la cosiddetta area “grecanica”, dove ancor oggi qualche migliaio di persone parla questa antichissima e bellissima lingua che, al giorno d’oggi, è pervasa da un sempre più veloce e, purtroppo, inesorabile declino. Nel contesto della produzione orale popolare sorta in seno a questa cultura va ricordata ad ogni modo una canzone molto nota in Calabria che, come moltissimi altri stornelli della nostra terra, parla di una storia d’amore tra due giovani che, in questo specifico contesto, si amano ma non possono consumare la loro passione essendo lei abitante della montagna e lui della marina.

Vallata dell'Amendolea

Ma andiamo ad analizzare, specificamente, il testo di tale canzone: esso è caratterizzato da quattro strofe e da un ritornello che funge anche da cerniera fra di esse, e che è costituito dalla bellissima frase “Ela elamu kondà, ti ego imme manachò!” che, tradotto, vuol dire: “Vieni, vienimi vicino, perché io sono solo!“. Gli argomenti delle strofe sono invece diversi tra loro, e passano dalla semplice e bellissima dichiarazione d’amore (“Arte ti ejenàstise megàli egò thelo na se prandestò!”, “Ora che sei diventata grande, io voglio sposarti!”) della prima strofa, a similitudini naturalistiche che invece permeano la seconda e la terza strofa, in cui la storia d’amore dei due giovani viene paragonata dapprima al fiume che scende dai monti alla marina (O potamò èrkete an tin ozzìa ce catevènni cato ston jalò”, “Il fiume scende giù dai monti, e scende giù in marina”), e poi ai pesci che assetati vanno a bere l’acqua dolce (Ciòla t’azzària ti ene dizzamèna èrkondo ce pinnu to glicìo nerò”, “Anche i pesci sono assetati e vengono a bere l’acqua dolce”), ed ancora al gioioso canto degli uccelli in festa al sopraggiungere del mese di maggio (“San èrkete o mina tu majìu olos o cosmo fènete chlorò…”, “Quando arriva il mese di maggio tutto il mondo si riempie di verde”). La quarta strofa è invece di stampo e di caratterizzazione ben diversa dal momento che, a struttura circolare, è pervasa da una dimensione maggiormente intimistica, nella quale è descritta la condizione dei due innamorati che da anziani continueranno a pregare Cristo vivendo insieme ed amandosi (“San i zoì dikìma ene palèa parakalùme viàta to Christò, den thelo de na fao ce de na pio, na ciumithò methèsumanachò”, “Quando noi saremo vecchi pregheremo sempre il Signore. Non voglio più mangiare né bere, ma voglio solo riposare accanto a te). Avendo analizzato accuratamente questo testo possiamo pertanto notare con pienezza l’alto lirismo che i nostri padri raggiunsero in testi ed in stornelli simili, caratterizzati indubbiamente non da picchi di bravura accecante, ma da risultati certamente apprezzabili malgrado il davvero bassissimo tasso di alfabetizzazione e di diffusione di quella cultura che potremmo definire “alta” che ha sempre caratterizzato la storia di queste nostre terre. 

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