Il Lido di Reggio nacque alla fine degli anni ’20, per volontà dell’allora sindaco Marchese Genoese Zerbi, ammiraglio della Regia Marina e grazie ad un gruppo di ingegneri cittadini, che donarono (!!) al Comune la società che avevano fondato alcuni anni prima, avente appunto per oggetto la realizzazione e la gestione di un stabilimento balneare nella rada Giunchi.
Anche a Reggio il Lido fu per decenni il luogo d’incontro estivo della cosiddetta gente benestante, tra appuntamenti in spiaggia la mattina, feste, sfilate di moda, balli e concerti la sera.
Le serate del Lido, per i ragazzi e le ragazze del tempo (che allora si chiamavano rispettivamente giovanotti e signorine) era una delle poche occasioni per ballare.
Agli occhi di chi non frequentava il Lido, quello era un luogo snob e irraggiungibile, per molti bigotti era addirittura un luogo libertino.
Tanto per avere un’idea di come alcuni esterni vedessero il lido, una volta, nel dopoguerra, durante la tradizionale festa di settembre, fu allestito un carro allegorico dedicato appunto al Lido, in cui lo stabilimento balneare veniva raffigurato come una specie di luogo di perdizione, popolato infatti da diavoli con relative forche!
La storia di quello che fu uno dei più belli stabilimenti balneari dell’Italia Meridionale è riportata, con dovizia di dati e di particolari, nel libro di Agazio Trombetta – editore Culture – intitolato “Reggio e il suo Lido”.
Ma io qui non voglio parlare di dati, ma solo di sensazioni e di ricordi; quelli di un bambino di pochi anni che d’Estate visse intensamente la vita del Lido all’epoca del suo epilogo.
Le cabine venivano chiamate “baracchette” ed ogni baracchetta aveva la sua ampia veranda, nella quale molti gruppi familiari usavano anche pranzare e cenare (coperti da un paravento).
Sul lato a monte, per tutta l’estensione del Lido, si ergeva una fila di alberi altissimi, all’ombra dei quali era possibile trovare sempre un posto al fresco, anche ad Agosto e a mezzogiorno. Ricordo il fruscio delle foglie sotto il vento dello Stretto, quasi sempre presente.
Noi andavamo al Lido la mattina verso le 10, accompagnati da mio padre, con la Topolino prima e con la 600 successivamente, che veniva a riprenderci i verso l’una. Nei giorni festivi ed ogni tanto ci stavamo tutto il giorno, per rientrare a casa dopo le 22, giusto il tempo di andare a letto (ma io e le mie ancor più piccole sorelle già ci eravamo addormentati in macchina).
A proposito delle ragazze: all’epoca, per me, maschietto ancora abbondantemente acerbo, mi sembrava appartenessero ad un altro pianeta, distante anni luce dal mio. Ricordo che ridevano solo con discrezione, magari coprendosi la bocca con la mano. Come segno di modernità, o di trasgressione, alcune portavano i capelli a “coda di cavallo”.
A qualche centinaio di metri dalla spiaggia, a mare, c’era la Boa, una immensa boa cilindrica ubicata al centro della rada Giunchi. La Boa, viscida e arrugginita, rappresentava per i giovani una prova importante, il cui superamento consentiva loro di entrare a far parte di una cerchia ristretta: quelli che erano riusciti ad andarci a nuoto almeno una volta.
Noi bambini ci andavano ogni tanto, non a nuoto, ma con la barca a remi, portati dai grandi e, come segno di conquista, volevamo sempre salirci su. Tutte le mattine d’Estate era possibile notare gruppi di giovani e di bambini seduti sulla Boa.
Una palazzina bassa ubicata nella zona centrale del Lido ospitava la direzione, il bar, l’infermeria (di cui noi bambini eravamo clienti abituali a causa delle frequenti scalfitture, curate sempre con pennellate di tintura di iodio); al primo piano c’era il ristorante.
Un tunnel percorreva tutta la lunghezza della palazzina, sotto il ristorante; era buio e fresco ad ogni ora del giorno e le sue pareti erano perennemente impregnare dell’odore, unico ed indimenticabile, delle pizze prodotte nel forno ubicato al suo interno.
Il Lido aveva perfino il cinema, l’Arena Lido appunto.
Negli anni ‘50, Il direttore del Lido era il Cav. Gaetano Melacrino, che ricordo perennemente accompagnato da bastone e paglietta, sempre con il piglio burbero che incuteva timore e rispetto: io, a cinque anni, ero tra i pochissimi che gli davano del tu, ma solo perchè era mio zio.
Il vice direttore era il Sig. Fortugno, impiegato del Comune che per hobby faceva il guardalinee (ma in serie A) e che fu poi, a sua volta, il direttore per i decenni successivi, divenendo il simbolo stesso del Lido dell’età moderna.
Un’istituzione del Lido era il bar Ferrara, dispensatore di coni e brioche con gelato (i gusti erano rigorosamente solo quelli “canonici”: nocciola, cioccolato, torrone e crema reggina).
Tra i personaggi del Lido ricordo un tale Bombino, un buon uomo dai capelli bianchi che lo si trovava sempre in giro di qua e di là, apparentemente sempre indaffarato e di cui non ho però mai saputo quale fosse ruolo.
Noi bambini, quando non eravamo in acqua, giocavamo. Noi maschietti giocavamo a costruire castelli di sabbia e “piste” per la corsa delle palline, a palla o alle bocce; i più grandi a tamburelli. Insieme alle femminucce si giocava a “nascondino” o a “scintilla”.
Le femmine, che giravano solo in gruppo (come avrei visto fare poi ai turisti giapponesi durante i miei futuri viaggi giovanili), avevano anche dei giochi che facevano solo tra di loro. Oltre che il gioco dei cerchietti (che venivano lanciati in aria facendovi scorrere all’interno due bacchette di legno, che poi servivano per riprenderli a volo) , prediligevano “mosca cieca” e il gioco della corda, cui mia cugina Mariella, che aveva qualche anno più di me, mi faceva talvolta partecipare.
Lei e le sue amiche mi sembravano grandi e quindi per me, a cinque o sei anni, i giochi cui esse giocavano, più che giochi da femmine, mi sembravano giochi da grandi. Forse per questo motivo non ho mai osato chiederle perché a mosca cieca cantilenavano sempre, fino alla nausea “sono una povera cieca / son caduta nel fosso / alzarmi non posso / aiutatemi voi”, o perché, nel gioco della corda, ripetevano continuamente “pera, arancia, fragola e limone”. Per me infatti quelli erano dei rituali esoterici, incomprensibili, cui mio malgrado mi adeguavo, senza fare domande, pensando di essere troppo piccolo per poterne comprendere il significato.
Nello Stretto l’acqua non è mai la stessa, anche a distanza di ore. Ma quella domanda era solo una formale consuetudine, poiché la risposta non produceva alcun effetto. Infatti poi si andava sempre e comunque a buttarsi nell’acqua, qualunque fosse la sua temperatura, per restarci fino a quando l’ennesimo ordine di uscire impartito dalle nostre mamme non si trasformava in una circostanziata minaccia di ritorsioni a lungo termine.
Il Lido aveva anche un suo regolamento; che era esposto nell’aiuola vicino l’ingresso principale. Ricordo che, negli anni ’50, oltre al divieto di calpestare le aiuole (e nonostante Giovanardi non avesse avuto ancora modo di diffondere il suo pensiero), vigeva quello, per le donne, di indossare il costume a due pezzi; ma non tutte le donne osservavano la regola e, per la verità, nemmeno le autorità si prodigavano per farla rispettare.
Molti anni dopo, quando ero studente a Torino, conobbi un signore di Perugia (lo zio di un mio compagno di corso) che negli anni ’50, da giovane, faceva il rappresentante in Calabria. E mi raccontò, con mia grande meraviglia, che era talmente innamorato del Lido di Reggio, che d’estate, alla fine della sua giornata di lavoro, ovunque si trovasse, era disposto a farsi anche quattro ore di macchina (l’autostrada ancora non c’era) per prendere albergo a Reggio e poter trascorrere la serata al Lido.
Nel prosieguo del colloquio mi parlò poi, con evidente nostalgia e con tanto di aneddoti, di quanto le giovani donne reggine che frequentavano il Lido fossero cordiali e disponibili nei confronti dei giovani forestieri che parlavano con l’accento “di sopra”.
Allora mi passò la meraviglia e in cuor mio pensai: altro che code di cavallo!