“Si maritau Rosa”: alla scoperta di un celeberrimo stornello folk siciliano

Ognuno di noi, sicuramente, conosce questo stornello, o è comunque a conoscenza del celeberrimo ritornello che recita: "Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda,/ e iu ca sugnu bedda mi vogghiu marità!".

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“Vinni la primavera,/ li mennuli su ‘nciuri/ a mia ‘nfocu d’amuri/ lu cori m’addumò,/ l’aceddi s’assicutunu/ facennu discurseddi,/ di quanti cosi beddi/ ca mi fannu ‘nsunnar!/”: sono questi i versi iniziali di una delle più celebri canzoni folk siciliane, un vero e proprio emblema della tradizione popolare nostrana; ognuno di noi, sicuramente, conosce questo stornello, o è comunque a conoscenza del celeberrimo ritornello che recita: Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda,/ e iu ca sugnu bedda mi vogghiu marità!”.

Ma, in fin dei conti, di cosa parla concretamente tale canzone? Essa fa riferimento ad una consuetudine molto in voga, un tempo, nelle nostre terre: facendo infatti un piccolo salto nel tempo all’Ottocento o ai primi del Novecento, possiamo riscontrare una particolare tradizione che stabiliva un dictat al quale, peraltro, era difficile che le famiglie (e specialmente quelle di estrazione contadina) si sottraessero: esse dovevano infatti crescere le proprie figlie femmine fondamentalmente al fine di condurle in salute all’età da marito, periodo fondamentale della vita durante il quale soltanto esse, munite di dote, potevano convolare a nozze.

E dunque, di cosa parliamo? Di matrimoni combinati: sì, proprio così, di quello stesso argomento che permea in profondità la cultura popolare meridionale, quella stessa tematica affrontata finanche da illustri esponenti della letteratura alta nostrana e pertanto ravvisabile, ad esempio, nel “Mastro Don Gesualdo” verghiano o ne’ “Il turno” pirandelliano.

Andiamo tuttavia ad analizzare, specificamente, il testo di tale canzone. Va innanzitutto riscontrato come esso vari in diverse versioni comunemente cantante e conosciute nell’ambito del folk sicliano: la lectio più comune è tuttavia costituita da quattro strofe, costruite in struttura speculare in antitesi, e che iniziano con una similitudine naturalistica che può richiamare l’immagine di un locus amoenus, caratterizzato pertanto da una primavera con fiori che sbocciano (“Vinni la primavera,/ li ‘mennuli su ‘nsciuri) e da uccelli che volano spensierati e che si corteggiano vicendevolmente (“L’aceddi s’assicutunu/ facennu discurseddi), che si pone tuttavia in stridente antitesi con la condizione esistenziale della giovane protagonista dello stornello, la quale afferma invece: “a mia ‘nfocu d’amuri lu cori m’addumò!”, e che commenta il tutto dicendo: “di quanti cosi beddi/ ca mi fannu ‘nsunnar!”.

La terza strofa della versione tradizionale descrive poi la condizione esistenziale della giovane ragazza alla vista “di quanti beddi giuvani/ ca passanu di sta strada!/”, la quale afferma invece che “nuddu di na taliata/ digna la casa me!”,  e che continua, nella quarta strofa, affermando che: “e iu tra peni e lacrimi/ distruggiu la me vita!/ Mi vogghiu fari zita,/ mi vogghiu marità!”. Altre versioni del testo di tale canzone aggiungono, ad ogni modo, altre strofe, tra le quali è degna di menzione quella che descrive, ancora una volta, la condizione della donna che, isolata“‘nta lu quartieri miu”, desidera di poter uscirne ma che, non appena si ricorda della sua giovane età, afferma in modo sconsolato “e restu a lacrimà!”.

Canzone conosciutissima nel contesto della tradizione folkloristica siciliana, essa è stata interpretata magistralmente sia da grandi esponenti della canzone folk siciliana, quali l’ormai defunta Rosa Balistreri, che da grandi tenori operistici conosciuti a livello internazionale, quali il siciliano Roberto Alagna.

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