Oggi tutta Italia ricorda il 24° dalla strage di Capaci, dove persero la vita il giudice antimafia Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura, non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”. È il pensiero di un uomo che ha perso la vita 24 anni fa per “mano” di Cosa Nostra, l’organizzazione criminale che da sempre si era impegnato a combattere.
Giovanni Falcone, insieme a Paolo Borsellino, è ritenuto il simbolo della lotta alla mafia, del coraggio, della determinazione. Esattamente il 23 maggio del 1992 avveniva la strage di Capaci, a seguito della quale non solo perse la vita il giudice Falcone, ma anche sua moglie, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Erano gli anni di “sangue”, gli anni di Totò Riina, di Bernardo Provenzano, del pool antimafia e del maxi processo di Palermo. Anni di perdite, di uccisioni, ma anche di conquiste: dal nuovo metodo investigativo introdotto dal pool, ideato inizialmente da Rocco Chinnici, poi sviluppato da Antonino Caponnetto, che ruotava intorno ad un lavoro organico dei magistrati impegnati esclusivamente nei processi di mafia e insieme firmatari degli atti in modo da limitare i rischi “personali”, alla svolta del maxiprocesso di Palermo: dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987, grazie anche alla testimonianza dei collaboratori di giustizia, primo fa tutti Tommaso Buscetta, si stabilì per la prima volta la struttura piramidale della mafia siciliana. Di quel maxiprocesso si ricordano, inoltre, le centinaia di condanne inflitte per 2665 anni complessivi di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare. Più di 400 persone indagate, tra cui i latitanti Riina a Provenzano, destinatari di due dei 19 ergastoli emanati. Falcone e Borsellino tra i nomi di spicco in quel lungo e arduo percorso. Due uomini che hanno dedicato la vita ai loro ideali, ad un lavoro per cui la consapevolezza dei rischi di ciò che facevano non li ha fermati.
Oggi Palermo, Capaci, e tutta l’Italia ricorda quella strage, con le scuole (quindi soprattutto con i giovani), i concerti, gli spettacoli, i cortei, le cerimonie istituzionali: 24 anni fa la reazione dell’opinione pubblica fu immediata, fece “rumore”: mille chili di tritolo fatti esplodere sotto il chilometro quinto dell’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci. Le immagini di quei primi attimi di terrore sono divenute ormai un “pezzo” dello storia italiana, così come anche quelle che attestano la rabbia della gente nei confronti della classe politica di allora, una folla gremita di persone che gridavano con orgoglio il nome del giudice Falcone, applaudendo alle vittime di una violenza tremendamente conosciuta soprattutto in quegli anni.
Ed è proprio la rabbia che ancora oggi si ricorda, una rabbia che non lasciava spazio alla rassegnazione, gridava alla giustizia, a reagire nonostante tutto quello che stava accadendo. Una rabbia, come poi dichiarò Paolo Borsellino, che lo spinse a continuare a fare il suo lavoro fino alla morte.
“La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”: riecheggiano le parole di un uomo, Giovanni Falcone.