Premio Tropea: intervista a Demetrio Paolin

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logo-premio-tropea-550x400_cDemetrio Paolin non è uno scrittore di professione. Leggendo i suoi romanzi si ha l’impressione che egli scriva sentendo forte il bisogno di comunicare agli altri qualcosa che l’ha profondamente colpito, per dar voce a un urlo dell’anima, per denunciare con la speranza di favorire il cambiamento, nonostante un grande pessimismo. Il suo ultimo libro, Conforme alla gloria, non è certo un romanzo d’intrattenimento e, almeno di primo acchito riflettendo sulle tematiche trattate, sorge spontaneo chiedersi se davvero l’autore abbia voluto soltanto proporre anch’egli un libro-denuncia “per non dimenticare” o se invece abbia piuttosto voluto utilizzare un tema così importante per l’intera umanità contemporanea, col proposito di innestarvi la propria ricerca filosofica sul rapporto tra bene e male. C’è molta profondità, infatti, nel romanzo di Paolin finalista al Premio Tropea 2016, che travalica il contesto di partenza e sembra voler indagare sul bisogno innato dell’uomo di ricercare ad ogni costo la felicità e voler proporre una sua riflessione sul limite tra umano e disumano in ogni essere e, infine, sul rapporto stesso tra l’uomo e Dio.

Nell’intervista che segue, gli abbiamo posto 10 domande, cercando di scoprire qualcosa su di lui e sulle sue opere e provando a interpretare la curiosità dei suoi lettori.

Quando è nata in Lei la voglia di scrivere?

Io ho iniziato a scrivere per lavoro intorno a 20 anni facendo il giornalista per diverse testate locali, occupandomi soprattutto di cronaca nera. Sono stato poi l’Ufficio stampa per una grossa sigla sindacale per alcuni anni. Questo per dire che la scrittura non è sgorgata in me come una vocazione o un talento. Era lì, la usavo quotidianamente come mezzo espressivo. È stato naturale così provare a mettere su carta alcune immaginazioni che covavo nella mente.

Le ha fatto piacere essere tra i finalisti del “Premio Tropea”?

Ovviamente sono felice e onorato di essere tra i finalisti. Sono orgoglioso soprattutto della stima e del riconoscimento al mio lavoro che mi ha tributato Vito Teti.

Questo suo nuovo romanzo vede la luce dopo ben sette anni dal primo: un caso, una necessità o una scelta?

Direi una necessaria scelta. Avevo in mente la storia di Conforme alla gloria da molto tempo. Sapevo che per renderla come la immaginava la mia mente avevo bisogno di tempo per lavorare sulla lingua, sui personaggi, sui singoli momenti narrativi… Questo mio atteggiamento mi ha preso molto tempo. La scrittura è stata lenta e molte sono state le revisioni del romanzo prima di arrivare alla forma attuale.

In Conforme alla gloria la sua scrittura è chiara, scorrevole e intensa. Quando scrive, si pone il problema estetico?

Io non so se la mia scrittura sia bella o brutta. Sinceramente non mi interessa. Io voglio che la mia scrittura funzioni, ovvero che la pagina del mio romanzo sia il più aderente possibile alla immaginazione che mi ha spinto a scriverlo. Credo che la mia scrittura, la sostanza di cui è fatta, abbia più a che fare con il vero che con il bello, e che insomma sua più legata all’etica (o all’ermeneutica) che all’estetica.

Scegliere di scrivere un romanzo che ha come sfondo la seconda guerra mondiale e gli orrori nei campi di concentramento sarà stata una scelta ardua: cosa l’ha spinta a scegliere questo argomento?

Non è stata una scelta ardua, ma naturale. Credo che il periodo della seconda guerra mondiale sia il periodo cruciale per capire non solo il nostro passato ma anche ciò che viviamo ora. Gli anni dal 1939 al 1945 sono gli anni decisivi per raccontare e capire cosa è l’uomo e cosa è diventato.

Quanto ha influito la sua profonda conoscenza su Primo Levi, su cui ha elaborato la sua tesi di laurea, e la sua visita ai luoghi dell’orrore del secondo conflitto mondiale nella progettazione e nell’elaborazione di Conforme alla gloria?

Per me è stato un memento per ricordare che ogni riga e ogni parola scritta doveva rispettare il dolore per storie. C’è quindi un profondo senso di responsabilità dietro ogni scelta singola del romanzo. In tutto questo Levi è stato la mia bussola e dal punto di vista stilistico che filosofico. Senza I sommersi e i salvati il mio romanzo non sarebbe mai nato.

Storici e politologi affermano, riferendosi agli atti di terrorismo attuali, che l’umanità sia oggi nuovamente in guerra; inoltre è innegabile che ancora oggi in tante parti del mondo ci si trovi di fronte a stermini di interi popoli, anche se tali avvenimenti non sono rapportabili numericamente alla tragedia della seconda guerra mondiale. Cosa pensa al riguardo?

Io penso che quando sostituitamo la parola “uomo” con la parola “nemico” abbiamo perso. A essere messo in crisi non è tanto il nostro sistema di valori ma la nostra capacità di vedere nell’altro un uomo e non un avversario.

Mi sembra di capire che alla fine del romanzo voglia comunicare il suo timore che il ricordo di un flagello come quello dei campi di sterminio attraverso la visione di oggetti che ne testimoniano gli orrori o altre pratiche usuali possa normalizzare un qualcosa di così terribile, generando il rischio che si ripresentino eventi simili. Crede che esista un’alternativa?

L’alternativa è l’arte. Provare a declinare quelle memorie all’interno di una struttura di finzione. Ben sapendo che non possiamo sostituirci ai testimoni, ma almeno suggerire una strada nuova e non banalizzante.

In che modo pensa che si debba porre uno scrittore, un uomo di cultura, di fronte a fenomeni come le discriminazioni razziali, l’intolleranza in genere e, più in generale, la sofferenza umana?

Io non so come gli atri si debbano porre. Io non ho ricette di sorta. Io cerco di fare e il mio fare – l’unico che so – è scrivere delle storie. E questo faccio.

Ci può dire a quando un suo prossimo libro?

In questo momento non ho nessuna idea su cosa scriverò in futuro. Conforme alla gloria mi ha spossato. Per ora la mia idea è di tornare a leggere e studiare in silenzio.

Francesco Saverio Rombolà

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