Prima Registrazione Mondiale di “Contrafacta”

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 Prima Registrazione Mondiale di “Contrafacta”

Siamo nella Milano della Controriforma più rigorosa: l’esigenza di frenare il fenomeno luterano, che attira molti integralisti o anche molti scontenti, ha ispirato una reazione bieca, a volte addirittura violenta. Milano è terra di confine e bisogna stare ancora più attenti: i cardinali Borromeo sono assai ligi, ma per fortuna Federico, nipote di Carlo, sembra mostrare alcuni segni di apertura. Solo nelle corti ci si diverte come se nulla fosse. Le corti sono “off limits” e a Mantova il Duca si diletta con i madrigali di Monteverdi, rigidamente proibiti in pubblico e in particolare nelle chiese, dove la musica è vista con sospetto e selezionata con molta attenzione. Basta che nessuno lo sappia: il peccato è dietro l’angolo e bisogna vigilare. Aquilino Coppini è uomo di fiducia di Federico Borromeo e anche di Claudio Monteverdi e ha un’idea per far eseguire in chiesa i madrigali di Monteverdi: sostituiamo i testi dei madrigali profani, addirittura anche di argomento erotico, e scriviamo delle inattaccabili “cover” latine di argomento religioso. Così “Cor mio, mentre vi miro” diventa “O Gesù, mentre ti contemplo”,  il lamento violento e disperato dell’amante tradito si trasforma in estasi nell’ammirazione del divino, il ricordo dei baci languidi è trasfigurato in contemplazione della luce eterna.  Federico Borromeo, da grande uomo di cultura, approva l’idea e approva anche il risultato; anche Monteverdi è felice e dà
il suo placet. I madrigali, proibiti, cominciano a essere eseguiti in pubblico nella forma latina, e in privato nella forma originaria.

Chi non sa plaude, chi sa ascolta e sorride con una punta di ironia beffarda. E la musica corre, arriva a tutti e può anche essere stampata e lasciare una traccia fino a oggi. E’ il nuovo thriller di Dan Brown? No, è “Contrafacta”, il nuovo progetto di Giovanni Acciai. Contrafacta, venti madrigali monteverdiani eseguiti a regola d’arte dalla Nova Ars Cantandi e Ivana Valotti diretti da  Giovanni Acciai,  che ha curato la ricerca, la revisione critica e le note di presentazione, su etichetta Archiv. L’acustica è quella meravigliosa della basilica di S. Barbara a Mantova, con il restaurato organo Antegnati.  I titoli in italiano, tra parentesi tonde, si riferiscono agli incipit dei madrigali a cinque voci del Quarto e del Quinto libro di Monteverdi, dei quali Aquilino Coppini si è servito per realizzare i suoi Contrafacta spirituali. Il numero romano indica il libro dei madrigali, quello arabo, la collocazione del madrigale all’interno del libro medesimo. Nella storia dei rapporti tra parola e musica il madrigale occupa, senza ombra di dubbio, un posto di rilievo, per quantità e qualità: è il campo d’azione principale di quel lungo e complesso processo di verbalizzazione della musica profana che, tra il 1530 e il 1640, in un ambiente culturale quanto mai vivo e stimolante come la civiltà cortese del tardo Cinquecento (la civiltà del manierismo aulico e letterario) dapprima in Italia, poi anche in altri paesi d’Europa, permea ogni gesto compositivo e lo pone, in misura sempre più crescente, al servizio della parola. D’altra parte, il madrigale è prima di tutto, poesia. Ed è forse questa sua fondamentale prerogativa d’identificazione della parola come significazione sonora, capace di particolari sfumature di immagini, a legittimare l’aspirazione madrigalistica volta ad adeguare il «suono musicale» al «suono verbale» e, di conseguenza, a creare linee melodiche suggerite dal peso sonoro della parola stessa.

La parola, dunque, intesa come materia sonora con la quale costruire la musica; i toni e gli accenti dei versi poetici sono i toni e gli accenti della frase musicale. Non il contrario. L’elemento verbale, ora inteso come vettore dei fondamenti della composizione madrigalistica, cioè dei cosiddetti «soggetti», che costituiscono gli equivalenti musicali (le «figure») di carattere essenzialmente melodico e declamatorio, di determinate parole e delle immagini sonore in esse racchiuse, diventa il principale ispiratore di quella «imitazione della natura delle parole» invocata a piena voce dai teorici dei secoli XVI e XVII. Ciò porta alla sempre più forte subordinazione della musica alla poesia; al predominio di questa sulla forma musicale. Dal punto di vista storico, la verbalizzazione che si compie nel madrigale musicale diventa così la premessa per il divenire di una nuova concezione della forma musicale. L’opera madrigalistica di Claudio Monteverdi (Cremona, 1567 – Venezia, 1643) offre uno straordinario materiale di studio e di indagine per esemplificare questi fondamentali processi che nessun altro compositore del suo tempo, per forza creatrice e per intelligenza artistica, seppe come lui comprendere e legittimare: dal suo Primo libro di madrigali (1587) fino all’Ottavo (1638), quella tensione dialettica fra struttura poetica e struttura musicale, fra espressione e forma è testimonianza emblematica del nuovo clima culturale ed estetico che si andava delineando proprio nei primi anni del secolo XVII. Non a caso, la sua opera madrigalistica si pone a cavallo fra due epoche – Rinascimento e Barocco – e fattivamente contribuisce al superamento dell’idioma polifonico, proprio dell’estetica vocale dei secoli XV e XVI, a favore del «cantar a solo».

Si può dire che questo importante momento di trasformazione abbia inizio e si concretizzi a partire dal Quarto libro dei madrigali a cinque voci pubblicato nel 1603 a Venezia, presso Ricciardo Amadino, e si completi con la monumentale silloge dell’Ottavo libro dei madrigali a due, tre e cinque voci, dato alle stampe a Venezia, per i tipi di Alessandro Vincenti, nel 1638. Se già a partire dal Terzo libro dei madrigali a cinque voci (1592) Monteverdi aveva incominciato a esporre le sue idee sul modo nuovo di intendere il rapporto fra poesia e musica e aveva indicato gli atteggiamenti compositivi da impiegare affinché l’«Horatione» non fosse più «ancella ma signora dell’Harmonia», al fine di valorizzare gli «affetti» contenuti nel testo poetico, con il Quarto libro (una pietra miliare della «seconda prattica»; forse il più bello fra i libri di madrigali a cinque voci scritti dal «divino Claudio») questa volontà non soltanto viene confermata e ribadita con maggiore vigore ma esaltata attraverso una tensione espressiva costante e un’urgenza di comunicazione che non conosce cedimenti. In esso, l’atmosfera poetica che vi si coglie è ora drammatica, ora languida, ora patetica, ora sensuale, sempre intensa, appassionata, esclusiva. Alla luce di queste considerazioni, sembrerebbe impensabile oltre che improbabile immaginare l’utilizzo della musica madrigalistica, in generale e di quella monteverdiana, in particolare, al di fuori di quel mondo cortigiano e «reservato», al quale essa era destinata e del quale costituiva uno dei più importanti momenti di godimento estetico. Invece, nel 1607, a Milano, lo stampatore Agostino Tradate pubblicava un’opera che stabiliva l’esatto contrario: il primo libro della Musica tolta da i madrigali di Claudio Monteverde, e d’altri autori, a cinque, et a sei voci, e fatta spirituale da Aquilino Coppini.

Considerando il successo che questa prima edizione dovette incontrare negli ambienti ecclesiastici lombardi e non solo, l’anno seguente, lo stesso editore approntava una seconda raccolta e, nel 1609 una terza (Il Terzo libro della musica di Claudio Monteverde a cinque voci fatta spirituale da Aquilino Coppini) dedicata, quasi per intero, ai madrigali del Quarto libro a cinque voci del Maestro cremonese. Ciascuna delle tre sillogi coppiniane si presenta nei caratteristici libri-parte, in ottavo (16 cm. di larghezza per 22 di altezza) ed è anche affiancata da un «partito», di analogo formato, che conteneva tutti i brani disposti in partitura allo scopo di consentire all’organista di avere una visione d’insieme dell’ordito polivoco onde realizzare al meglio l’accompagnamento strumentale. Limitandoci soltanto ai brani monteverdiani, il volume del 1607 contiene undici madrigali tratti dal Quinto libro (1605); quello del 1608 da tre madrigali, tratti dal Terzo libro (1592), uno dal Quarto e quattro dal Quinto.  La raccolta del 1609, alla quale è interamente dedicata questa registrazione, è dominata dai madrigali del Quarto libro (diciassette su venti che compongono l’edizione originale) e comprende anche due brani provenienti dal Quinto libro e uno che sarà successivamente pubblicato nel Sesto (1614).  Soltanto la prima antologia del 1607 è giunta integra fino a noi ed è oggi custodita nell’Archivio capitolare della Cattedrale di Piacenza. Nel 1611, sempre a Milano, gli editori Melchiorre ed eredi di Alessandro Tradate ristamparono questa prima edizione, della quale, oggi, possediamo il solo «partito», conservato in due esemplari presso la Biblioteca della musica di Bologna e la Biblioteca governativa di Cremona.

Il Secondo libro (1608), segnalato dai repertori bibliografici nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, è risultato introvabile dopo i bombardamenti su Milano dell’agosto del 1943; il Terzo sopravvive mutilo (tre fascicoli su cinque e senza partitura) presso l’Archivio musicale del Duomo di Como (parti dell’Alto e del Tenore) e presso la Universiteits Bibliotheek di Gent (parte del Basso).
Il titolo completo di quest’ultima raccolta è: IL TERZO LIBRO | DELLA MUSICA | DI CLAUDIO MONTEVERDE | A CINQUE VOCI | Fatta Spirituale da Aquilino Coppini Regio Lettore | di Retorica, & Accademico Inquieto | C ON LA PARTITURA | Al Serenissimo Signor Don Francesco Gonzaga | Principe di Mantova & di Monferrato [Marca tipografica] IN MILANO, Per Alessandro & her. di Agostino Tradati. | Con licenza de’ Superiori. 1609. La sua stesura dovette impegnare non poco il retore milanese se in una lettera del 26 marzo 1609, al collega Pier Francesco Villani dell’Università di Pavia, Coppini afferma che il suo «tertius liber concentus continens divinos sub proelio est. In eo libro insudavi multum, & verbis meis Musicae vim aliqua ex parte
mihi videor assecutus» (Il terzo libro, contenente musica spirituale, è in corso di stampa. Ho lavorato sodo per la stesura di questo
libro e mi sembra di aver seguito con le mie parole la forza della musica in ogni sua parte). Il contenuto delle tre raccolte è dunque caratterizzato dalla sostituzione degli originali testi poetici in volgare, con altri in latino, di argomento spirituale. Se per noi, oggi, un’operazione del genere può sembrare lesiva dell’integrità dell’opera d’arte, per l’uomo cinquecentesco significava invece una conferma in più del primato della poesia sulla musica, della grammatica sulla composizione musicale e, dunque, di quell’arte di muovere gli affetti per mezzo di figure verbali che, secondo il Bembo, proveniva innanzi tutto dagli aspetti sonori e ritmici della poesia. Per tale ragione, la sostituzione dei versi originali con quelli latini frutto dell’abile penna di Coppini, non pregiudica l’equilibrio espressivo delle pagine madrigalistiche «convertite allo divino», ma soltanto le indirizza verso una diversa area emotiva. Una maniera elegante e raffinata per far gustare alla società ecclesiastica del tempo, il fascino e la bellezza di un repertorio che altrimenti le sarebbe stato precluso. D’altronde la pratica del travestimento spirituale non era affatto nuova nella tradizione musicale della Chiesa: è ben nota la consuetudine medievale e rinascimentale di volgere al sacro i testi profani di brani monodici o polifonici.

Sono poi gli stessi compositori ad attribuire alla pratica dei contrafacta un grande valore nell’ambito della loro produzione, tenuto conto del vasto numero di edizioni di opere del genere date alle stampe anche dopo l’exploit dei libri di Coppini. Se lo stesso Monteverdi si avvalse ancora del contributo poetico dell’umanista milanese per «spiritualizzare» il suo Lamento d’Arianna e trasformarlo nel Pianto della Madonna, a conclusione della sua monumentale Selva morale e spirituale (Venezia, Bartolomeo Magni, 1640-41), si può forse supporre che la pratica del travestimento fosse molto apprezzata dai notabili del tempo, compresi i membri del clero non insensibili alla musica. Attraverso un meticoloso lavoro di comparazione fra i brani raccolti da Coppini nel suo Terzo libro del 1609 con i madrigali del Quarto libro del «divino Claudio» del 1603, siamo riusciti a ricomporre nella sua interezza il nostro mosaico musicale attribuendo a ciascuna delle cinque linee vocali il testo latino in luogo di quello profano originale, fatta eccezione per i brani Amemus te («Amor, se giusto sei»), Qui pietate («Ma se con la pietà non è in te spenta») e Una es («Una donna fra l’altre onesta e bella») dei quali non è stato possibile ricostruire la versione latina a causa della mancanza delle parti del Canto, dell’Alto e del Quinto andate, come s’è già detto, perdute.  Al fine di mantenere identico il numero dei brani previsto dall’impaginazione del Terzo libro di Coppini, abbiamo sostituito i tre madrigali mancanti, con altri tre, tratti dal Primo libro coppiniano del 1607 e appartenenti al Quinto libro de’ Madrigali di Monteverdi del 1605: Stabat virgo Maria («Era l’anima mia»), Gloria tua («T’amo mia vita») e Vives in corde («Ahi, come a un vago sol cortese giro»).

Quasi inesistenti le notizie intorno alla vita e all’opera di Aquilino Coppini (?-1629), al servizio del cardinale Federico Borromeo e insegnante di retorica dapprima nella sua città natale e poi presso l’Università di Pavia. L’abate don Filippo Picinelli (1604-1678), nel suo Ateneo dei letterati milanesi (Milano, Francesco Vigone, 1670), anch’esso dedicato al cardinale Federico Borromeo, si domanda: «ove collocaremo noi Aquilino Coppini? Sù gli organi, ne i sacri tempij ò sù le Cattedre ne i letterati Licei? In ciascuno di questi siti sarà sempre meritevole di segnalati Encomij. Nei tempij, poiché egualmente, e possessore della musica, e zelante del decoro dovuto alla santità del luogo, si dilettò di ridurre le cantilene profane, che dal secolo corrotto erano usate, à spirituale armonia. Sù le Cattedre, perché con molta sua gloria insegnò lettere humane, havendo prima faticato nella lettura di Rettorica, che all’hora solleva essere in Milano; e poi ottenutala nell’Università di  Pavia».  Uomo coltissimo, latinista senza rivali, Coppini era, insieme con il teologo e predicatore carmelitano Cherubino Ferrari (un altro sostenitore del giovane Monteverdi) membro dell’Accademia degli Inquieti, fondata a Milano intorno al 1594. La sua predilezione per i viaggi e la sua convinta ammirazione per l’arte monteverdiana, lo portarono, nel 1609, a Mantova, per assistere alla rappresentazione dell’Arianna, appositamente allestita per le nozze del principe Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia, primogenita di Calo Emanuele I.  Egli ne offre ampio resoconto nella dedica del suo Terzo libro, là dove scrive che «l’antichissima e bellissima città di Mantova fu in ogni tempo […] feconda madre e benigna nutrice d’elevatissimi ingegni tra i quali oggidì Claudio Monteverde  […] è giunto nella musica a tale eccellenza, che non più devono apparire strani quegli effetti di armonia i quali con molta meraviglia leggiamo nelle carte antiche. Di questo, tra molti altri componimenti chiara fede ne fa L’Arianna, opera che […] colle nove e soavi note del Monteverde, per non dire della espressione de gli altri affetti, ha potuto trarre a viva forza dagli occhi del famoso teatro e di chiunque poscia l’ha sentita, a mille a mille pietose lagrime».

Fervente sostenitore, dunque, del nuovo corso stilistico intrapreso da Monteverdi attraverso le sillogi madrigalistiche del Quarto e del Quinto libro, nel quale, per la prima volta, il Basso strumentale viene prescritto non più come «seguente» ma come «continuo», Coppini fu per tutta la vita instancabile patrocinatore e diffusore della musica monteverdiana che riuscì a introdurre negli ambienti ecclesiastici lombardi tramite i suoi sapidi travestimenti spirituali. Non a caso il suo primo libro della Musica tolta da i madrigali di Claudio Monteverde, e d’altri autori, porta la dedica «all’Illustriss. & Reverendiss. Sig. il S. Cardinale [Federico] Borromeo, Arcivescovo di Milano», il quale, secondo quanto riferito da Adriano Banchieri in una lettera indirizzata allo stesso Coppini, sarebbe stato il committente della pubblicazione. Val la pena di ricordare che il monaco olivetano e compositore bolognese manteneva regolare corrispondenza con il cardinal Borromeo e, pertanto, non vi è motivo di dubitare della sua testimonianza. «Rebus sic stantibus», la dedica dei contrafacta coppiniani al presule milanese è, a dir poco sorprendente, se si pensa al ruolo determinante svolto da Carlo Borromeo (1538-1584), zio di Federico (1564-1631), nell’ambito della Controriforma e
agli sforzi da lui compiuti per la fattiva applicazione delle disposizioni conciliari in materia di musica sacra. Se l’autorevole zio non aveva lesinato energie per realizzare un repertorio di polifonia liturgica conforme ai decreti del tridentino Concilio, un repertorio nel quale il testo devozionale risultasse sempre chiaro e comprensibile (ut verba intelligerentur), come le Messe polifoniche di Vincenzo Ruffo, maestro di cappella nel Duomo di Milano dal 1565 al 1572, erano riuscite a dimostrare in maniera esemplare; il suo devoto nipote, memore degli esaltanti risultati ottenuti a Roma da san Filippo Neri (1515-1595), nell’Oratorio di santa Maria della Vallicella, con la musica «pescatrice d’anime» ed edificatrice spirituale dei credenti intorpiditi, era intenzionato a muoversi in tutt’altra maniera, non foss’altro perché – nonostante la volontà d’imitazione e di emulazione del suo santo predecessore – tutto era cambiato nella realtà storica e culturale del suo tempo.

La spinta propulsiva di un rinnovamento religioso inteso come creazione di una nuova società cristiana che era stato tipico del moto cattolico della Controriforma, stava ora per confluire in una tendenza, culturalmente impregnata di umori secolari e di spinte laiciste che tuttavia, sul modello romano dell’oratorio filippino, rappresentava un efficace veicolo di propaganda fidei e un formidabile mezzo di riavvicinamento dei suoi fedeli piú scettici alla Chiesa di Roma. Una prova di questo mutato clima nella diocesi milanese è offerta dalla pubblicazione di alcuni libri di madrigali spirituali di Orfeo Vecchi (La donna vestita di sole, Milano, 1602) e di Serafino Patta (Motetti et Madrigali cavati da le poesie sacre del Reverendissimo Padre D. Angelo Grillo, Venezia, 1614), durante l’episcopato di Federico Borromeo. Si tratta di un dato molto importante, se si pensa che nei primi due lustri del secolo XVI vennero date alle stampe appena quindici raccolte di madrigali spirituali e soltanto diciassette negli anni successivi, compresi fra il 1610 e il 1622. In questo elenco vanno annoverati anche gli undici Madrigali spirituali a quattro voci del giovanissimo Claudio Monteverdi (Brescia, Vincenzo Sabbio 1583), al momento giunti a noi tramite la sola parte del Basso e, dunque, inutilizzabili. Infine, più strettamente correlati ai lavori di Aquilino Coppini, sono sei antologie di contrafacta, uscite dai torchi degli editori milanesi intorno al primo decennio del Seicento, a cura di Simone Molinaro (due sillogi), di Orfeo Vecchi (una) e di Geronimo Cavaglieri (tre). Esse ci aiutano a comprendere quali fossero i gusti, gli orientamenti stilistici, le preferenze musicali degli ambienti ecclesiastici lombardi in quello scorcio temporale.

D’altra parte l’interesse di Federico Borromeo per tutte le arti fu profondo e vivo, così come efficace e incisiva fu la sua politica culturale nell’arco della sua esistenza; politica culturale che lo portò a fondare, nel 1607 e ad aprire al pubblico nel 1609, ovvero negli stessi anni nei quali Coppini «riduceva a spirituale armonia» un considerevole numero di madrigali di Monteverdi, la Biblioteca Ambrosiana, ancor oggi uno dei maggiori centri mondiali di cultura umanistica; a inaugurare, nel 1618, la Pinacoteca Ambrosiana e, nel 1620, a istituire l’Accademia di pittura, di scultura e di architettura, intorno alla quale radunare i migliori artisti milanesi sotto la presidenza di Giovanni Battista Crespi (detto il Cerano). L’accademia era concepita non soltanto in funzione della Pinacoteca ma anche come scuola per giovani artisti, per agevolarli nella loro opera di divulgazione e di umanizzazione dell’arte religiosa, attraverso la quale rendere i dogmi divini più facilmente  comprensibili alle masse e favorire l’estasi spirituale dei fedeli. In questo contesto, anche la musica doveva svolgere un ruolo determinante, così come san Filippo Neri, amico e guida spirituale del giovane Federico durante i suoi anni di studio trascorsi a Roma (1586-1595), aveva dimostrato con il canto delle laudi alternato alle preghiere e alle conversazioni  religiose degli «esercizi» dell’Oratorio. Non è un caso se il Terzo libro delle laude spirituali a tre e a quattro voci (Roma, Alessandro Gardano, 1588) di Francisco Soto de Langa, venne dato alle stampe con dedica a Federico Borromeo. Che anche i motetti di Coppini possedessero queste qualità è stato riconosciuto dal loro stesso autore, quando, nel luglio del 1609, inviando al collega e amico Hendrik van der Putten (Enrico Dupuy), residente a Leuven, nelle Fiandre, i tre volumi dei suoi contrafacta, esaltava il carattere intenso ed espressivo delle composizioni monteverdiane in essi racchiuse e raccomandava che la loro esecuzione fosse sempre rispettosa dei valori affettivi insiti nel testo: «Mitto ad te triplicem foetum. Musici concentus sunt quos si tibi gratos extitisse cognovero […]. Qui sunt a Monteverdio, longiora intervalla, & quasi percussiones inter canendum requirunt. Insistendum tantisper, indulgendum tarditati, aliquando etiam festinandum. Ipse moderator eris. In ijs mira sane vis commovendorum affectuum. Experire, si lubet» (Ti invio un parto  trigemellare. Si tratta di concerti musicali e vorrei sapere se sono di tuo gradimento […]. Quelli che sono di Monteverdi richiedono, durante l’esecuzione, più ampi respiri e battute non proprio regolari, talora incalzando o rallentando, talora anche affrettando. Tu stesso stabilirai il giusto tactus. C’è in essi una capacità davvero meravigliosa di muovere le passioni dell’anima in maniera eccessiva. Provali, se lo desideri).

Inoltre, facendo riferimento, nella dedica del suo Secondo libro del 1608, andato perduto, alla prima raccolta del 1607, Coppini affermava di aver «stampato l’anno precedente la maggior parte di quella musica vestita di parole spirituali, in modo che fosse altrettanto encomiabile a Dio e ai suoi santi nelle chiese e nelle case private», mentre nella dedica alla stessa raccolta del 1607, il retore milanese incoraggiava Federico Borromeo a utilizzare i suoi travestimenti spirituali anche in ambito liturgico: «ho espresso in queste parole ciò che forse possono essere sentiti in un momento o l’altro con piacere per la gloria di Dio nella tua chiesa».  Non sappiamo se questi motetti siano stati effettivamente eseguiti in Duomo, a Milano o altrove, durante le funzioni religiose; è certo che il cardinale Federico Borromeo ebbe occasione di utilizzarli sia durante le devozioni private sia in occasione delle sue numerose visite pastorali ai conventi della diocesi.  La dedica della raccolta del 1608 (Secondo libro) che Coppini rivolge a suor Bianca Lodovica Taverna del monastero milanese di Santa Marta, sta a dimostrarlo senza ombra di dubbio. Il convento di Santa Marta era noto per l’esperienza mistica e contemplativa delle sue monache visionarie, guidate spiritualmente dallo stesso Borromeo, il quale era particolarmente sensibile al misticismo femminile e attratto non poco dai fenomeni soprannaturali, come si evince dai suoi Ragionamenti spirituali (editi postumi nel 1673) proposti alle suore di quel monastero. Non è da escludere che i testi coppiniani «volti allo spirituale», emotivamente intensi e ricchi di immagini di un mondo soprannaturale descritto con i colori e con le sembianze di quello terreno, insieme con la musica di Monteverdi, capace di dare vivida rappresentazione dei sentimenti umani, siano stati utilizzati per il trasporto emotivo e per l’elevazione spirituale delle suore e dei partecipanti ecclesiastici alle sessioni contemplative, periodicamente tenute nel convento milanese. È ancora Aquilino Coppini ad avvalorare questa ipotesi quando, nella citata dedicatoria del Secondo libro, insiste sull’espressività della musica madrigalistica di Monteverdi che «regolata dalla naturale espressione della voce umana nel movere gli affetti, influendo con soavissima maniera negli orecchi, e per quelli facendosi degli animi piacevolissima tiranna, è ben degna d’esser cantata et udita […] ne’ recetti de’ più nobili spirti e nelle regie corti».

Nel «convertire a lo divino» i testi poetici dei madrigali di Monteverdi, Aquilino Coppini sembra animato da un unico obiettivo: quello di conservare il più possibile la struttura della poesia originale, il numero e la lunghezza dei suoi versi, la metrica delle sue parole, la peculiarità della sua sintassi. Poiché la melodia delle linee vocali di ciascun madrigale, spiritualmente travestito, scaturisce interamente dalla parola e dall’affetto che in essa si cela, la versione latina segue strettamente l’originale, ne rispetta la lunghezza dei versi e la collocazione delle cesure, tanto che, laddove la trasposizione dal contesto profano a quello sacro lo permette, il Nostro poeta traduce quasi alla lettera i versi in volgare. E lo fa per non compromettere l’iterazione e lo scambio di «affetti» nel passaggio dall’una all’altra lingua. È il caso degli incipit dei madrigali Luci sere e chiare, Voi pur da me partite e Longe da te, cor mio che il retore milanese conserva pressoché identici nella trasmigrazione latina (Luce serena lucent; Tu vis a me abire, anima dura; Longe a te, mi Jesu). Ma anche singole parole rimangono immutate nel passaggio da un idioma all’altro:  «Quest’è vicino aver l’ora suprema» – «Sed destinabere hora suprema» (Tu vis a me abire, anima dura); «e ‘l mar s’acqueta e  i venti» – «mare et terram et ventos» (Cantemus laeti); «O imagini belle de  l’idol mio ch’adoro» – «o imagines almae, illius  quae adoro» (O stellae coruscantes).  La fedeltà della trasposizione sul piano semantico tocca anche il livello fonetico e quello strutturale del travestimento. Il  costante riferimento all’originale consente di mantenere inalterato anche l’impianto di base del madrigale, le eventuali  domande retoriche e le esclamazioni testuali in esso ricorrenti. (Cor mio non mori? – Jesu, tu obis?).

Soltanto in un caso, egli rompe questa corrispondenza, questa consanguineità fra archetipo originale e suo trasmutamento devozionale, considerando il madrigale Che, se tu se’ il cor mio (O gloriose martyr),  come un brano a sé stante e non come «seconda parte» di Anima mia perdona (Domine, Deus meus). Nonostante la concordanza semantico-strutturale della versione latina con l’originale italiano, il contrafactum è comunque un brano autonomo, poiché la spiritualizzazione non riguarda soltanto il testo a livello superficiale, ma provoca un decisivo cambiamento di genere poetico, di carattere e di situazione affettiva determinato dalle parole latine. In questo senso, la differenziazione degli stili proposta da Marco Scacchi (1602-1662), maestro della cappella reale di Polonia, fra stylus ecclesiaticus (musica da chiesa) e stylus cubicularis (musica da camera), non è affatto da intendersi in maniera rigida, secondo una logica manichea, come potrebbe invece a prima vista sembrare. Dal confronto dei contrafacta coppiniani con i versi originali emerge, invece, una varietà di affetti derivata dalla trasposizione di un modello profano in ambito sacro. Per gli uomini di chiesa e di corte dell’incipiente Seicento, questo procedimento di «spiritualizzazione» non significava affatto una sbrigativa soluzione ma, al contrario, si poneva come una sfida, come una tensione continua fra l’«amor sacro» e l’«amor profano». In tal modo, le appassionate manifestazioni di affetti che si incontrano nei madrigali del Quarto libro monteverdiano (ira, rimprovero, vanità ferita, maledizione, struggimenti amorosi, eros, e tante altre ancora) vengono trasformate in altrettante espressioni adeguate alla santità dei temi divini. L’eros dell’amante cede il posto alla caritas cristiana e all’agape divina che anche la madre di Dio è in grado di provare. La madre (Stabat virgo Maria), in preda a profonda disperazione, piange la propria solitudine, abbandonandosi tuttavia al dolore per la morte del figlio con rassegnazione piuttosto che ribellandosi. Il suo interrogarsi sul progetto di salvezza divino non è frutto di collera e vanità ferita, ma dello smarrimento di fronte alla morte e dell’impossibilità tutta umana di comprendere il destino.

Coppini si preoccupa dunque di cogliere nei versi dei madrigali monteverdiani, l’intimo carattere, la situazione emotiva più vera e più intensa ovvero gli «affetti» forti, i drammi laceranti, le angosce dell’amore e della morte per trovare nella letteratura devozionale una mappa corrispondente di condizioni emotive tali da suscitare nell’ascoltatore sentimenti di stupore e di «maraviglia» che i nuovi testi, innervati su una musica che egli già conosceva gli avrebbero provocato. Basta scorrere alcuni di questi versi per comprendere come quest’«Accademico inquieto» abbia saputo legare indissolubilmente emozioni, suoni, parole in una gamma amplissima, tra pianto, angoscia, gioia, paura, timore, lotta interiore: mondi plurimi del firmamento madrigalistico racchiusi in un microcosmo serrato e libero insieme che soltanto i grandi temi della verità di dottrina possono offrire. Avviene così che gli affascinanti versi di Quel Augellin che canta, dedicati da Giovanni Battista Guarini a un uccellino ebbro d’amore, si trasformino per merito dell’inesausta fantasia coppiniana, nella narrazione di anime devote a Dio, schive degli effimeri piaceri terreni e comprese soltanto dell’amore celeste (Qui laudes tuas cantat). Anche quando i due soggetti sono concettualmente più distanti fra loro, come in Luci serene e chiare – Luce serena lucent, gli «affetti» cruciali della poesia di Ridolfo Arlotti (il dolore, la luce serena, le ferite della piaga, il perire senza languire) vengono sapientemente conservati da Coppini nella sua versione spirituale.

E che dire della geniale contrapposizione ideata dal nostro mirifico latinista fra l’amante abbandonato dall’amore crudele di Voi pur da me partite, anima dura e l’anima malvagia intenzionata a preferire i piaceri della carne a quelli dell’amor divino di Tu vis a me abire, anima dura? Nell’ultimo verso del madrigale guariniano («e separarsi e non sentir dolore»), Monteverdi dà fondo a tutto il suo arsenale retorico, raffigurando il momento dell’abbandono dei due amanti con due voci gravi che iniziano il loro canto all’unisono e poi si separano lentamente, percorrendo intervalli dissonanti. Per analogia, Coppini contrappone al distacco dal godimento amoroso, la separazione dalla gloria eterna («adhaerere caducis et separari a gloria aeterna») esaltando la metafora musicale con una immagine poetica altrettanto efficace ed incisiva. Fra i numerosi madrigali monteverdiani, a contenuto erotico, sparsi nel Quarto e nel Quinto libro, Sí, ch’io vorrei morire sembrerebbe, a prima vista, il meno adatto a ricevere parole spirituali, essendo i versi di Maurizio Moro, un piccolo ma eccitante prontuario di ars amatoria. Monteverdi dona a queste rime una delle sue musiche più sensuali e ardite, sfruttando, oltre ogni limite, l’impiego della dissonanza e della progressione armonica in funzione di rappresentazione retorica dell’apparato verbale.

Di fronte a una sostanza musicale così complessa, Coppini ha ben chiara la difficoltà di conservare integri il carattere, il pathos, la forza comunicativa di ogni singolo segmento motivico originale, apponendo un nuovo testo, per giunta in latino. Ma la sua espertissima strumentazione linguistica gli consente di utilizzare questa musica, nel modo più appropriato e più convincente, sublimandola, piegandola a fini edificanti, di intensa eccitazione religiosa. Avviene così che la passione  erotica si trasforma in fervore mistico, in irresistibile anelito spirituale, in un inno d’amore per Cristo: O Jesu, mea vita. Forse non è eccessivo sostenere che, attraverso la versione spirituale dei madrigali di Monteverdi, la musica si fa ancor più schiava della poesia e la accondiscende in ogni suo più piccolo moto affettivo. Ecco allora lo sconsolato attacco dei guariniani versi di Era l’anima mia già presso a l’ultim’hore dal Quinto libro de Madrigali di Monteverdi trasmutarsi – oh mirabile contraltare! – nello straziante incipit dello Stabat virgo Maria maestissimo dolore, con il quale Coppini dimostra, ancora una volta, di saper cogliere l’intensa umanità, i sussulti del cuore, il dramma terreno di Maria e di saperli trasmettere all’ascoltatore con impressionante forza descrittiva. Anche in una mutata situazione espressiva come questa, la musica del «divino Claudio» rende quasi palpabile l’intensità della disperazione e la desolazione del cordoglio. Una musica che ci fa entrare in un mondo che non avevamo mai conosciuto prima; una musica che desidera, che interroga, che si sgomenta, che è felice; una musica che, ascoltandola, ci solleva verso l’alto, sempre più verso l’alto, in un luogo dove non avremmo mai pensato di poter giungere. Una musica così non è una musica come tante altre. È una musica ricca di tutti i suoni, di tutti gli echi, di tutte le dolcezze della musica di questa terra e, insieme, della musica di un altro mondo: quello dello spirito. È la musica dell’anima.

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