Ceccato 98 – Cappotto militare

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di Enzo Cuzzola – Mio padre raccontava spesso della campagna di Africa, delle battaglie di Tobruk e di El Alamein, che lo avevano visto in prima linea, con la radio sempre sulle spalle, in quanto era “marconista”. Raccontava anche del lunghissimo e disagevole viaggio, in nave, dall’Africa a San Francisco, poi della prigionia nelle Hawaii. La guerra era un ricordo che gli bruciava sempre.

Raccontava che, alla fine della guerra, lo avevano riportato in Italia. Lo avevano sbarcato a Napoli. Poi si era dovuto arrangiare da solo, per tornare a casa, dove aveva lasciato la moglie (mia madre) ed una bimba (mia sorella).  Raccontava che, durante il viaggio in Patria, era sopravvissuto grazie alla solidarietà della gente. Raccontava che contrariamente ad alcuni compaesani, che erano stati deportati nella sua stessa prigione, gli americani non lo avevano mai pagato per il lavoro fatto,  quindi non gli avevano dato alcuna ricompensa, in quanto si era rifiutato sempre, all’alza bandiera, di urlare “Dio salvi gli Usa”.

Ma una cosa dalla guerra la aveva portata con sé, anzi due, per la verità: un cappotto militare e la gavetta del rancio.

Conservava il cappotto militare nell’armadio in camera da letto. Non lo aveva mai più indossato. Era di lana molto pesante. Mia madre da tempo vi aveva messo gli occhi sopra, pensava di chiedere alla Maestra di sartoria (di mia sorella Marisa e mia cugina Lina) di ricavarne un cappotto per me o per uno dei miei fratelli. Ne parlava spesso con mio padre, che al contrario la pregava di custodirlo ancora, caso mai servisse.

Una sera di febbraio, rientrando dalla raccolta dei bergamotti (aveva una squadra di zingari che gli collaboravano), pregò mia madre di tirare fuori il cappotto militare. Mia madre lo guardò e gli chiese cosa dovesse farne, rispose che era arrivata l’ora di utilizzarlo. Mia madre pensò che volesse indossarlo per la raccolta dei bergamotti, dato che quell’anno faceva molto freddo.

La sera seguente mio padre si presentò a casa con uno zingaro molto anziano. Ce lo presentò come “zio Cosimo” , il capo della comunità rom reggina. Gli consegnò il cappotto e lo pregò da quel giorno di indossarlo. Bevvero assieme del vino, poi zio Cosimo si congedò e andò via.

Mia madre, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, chiese allora a mio padre il motivo per cui aveva regalato quel cappotto. Mio padre rispose:  “non glielo ho regalato, glielo ho prestato.  Adesso ne ha bisogno lui che è molto malato e non ha come coprirsi. Quando ne avrò bisogno io, qualcuno me lo presterà”.

Dal canto mio compresi che, mio padre nella sua semplicità, aveva coniugato la fede nella Provvidenza.

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