Al centro era posizionato un grande fusto di ferro, con uno sportellino in basso dal quale si intravedeva una brace viva. Sulla bocca del fusto, che fungeva da fornacetta, era posizionata una “caddara” (grande paiolo) di rame, rivestita internamente di stagno.
Dentro bollivano lentamente, al mescolio sapiente che produceva mio zio Paolo con un grosso mestolone di legno, le “frittole” (cotenne, orecchie, piedi, muso, lingua, coda, ecc.) del maiale. Emanavano un profumo che faceva venire l’acquolina in bocca. Zio Paolo mi invitò a rimanere li con lui, sarei stato al caldo ed avrei visto la lavorazione. Mi spiegò che del maiale non va perso nulla, ogni parte si presta ad essere consumata o impiegata. Mi spiegò che i pennelli che usava Vincenzo al salone erano, appunto, fatti con le setole del maiale.
Intorno alle 13, mi invitò ad andare da mio padre e farmi dare un panino già aperto, perché a momenti le frittole sarebbero state pronte. Peraltro mi spiegò che quella era la volta buona, in quanto quello era l’ultimo sabato che “uscivano”, poi in Quaresima niente più, sarebbero “uscite” nuovamente con l’avvicinarsi del prossimo inverno. Tornai in macelleria di corsa. Zio Paolo infilò nel panino che tenevo ben aperto un pezzetto di cotenna e poi un pezzetto di magro.
Che goduria!