I legali di Mario Mori spiegano che “le prove acquisite sono tutte contrarie alla tesi” secondo cui la strage Borsellino sarebbe stata accelerata dalla trattativa
Il giudice Paolo Borsellino fu ucciso per la ”trattativa” tra Stato e mafia, come titolato da tutti i giornali il giorno dopo il deposito della sentenza? Nel processo ‘appello che prenderà il via domani, davanti alla Corte d’appello di Palermo, la difesa del generale Mario Mori, che in primo grado fu condannato a 12 anni, ripercorre tutta la vicenda riguardante proprio l’uccisione del magistrato.
Come apprende l’Adnkronos, i legali di Mario Mori spiegano che “le prove acquisite sono tutte contrarie alla tesi” secondo cui la strage Borsellino sarebbe stata accelerata dalla trattativa. “La conclusione secondo cui il dottor Borsellino fu ucciso per la ”trattativa” è stata raggiunta grazie a rilevanti lacune probatorie” in quanto non è stata ammessa una sentenza della Corte di Assise di Catania, ormai passata in giudicato da anni che collega la strage all’interessamento di Borsellino per le indagini del Ros sugli appalti e alla possibile nomina a Procuratore Nazionale Antimafia; quella sentenza è stata, peraltro, acquisita nel processo “Borsellino Quater” che è pervenuto alle stesse conclusioni dei giudici di Catania.
Ma i giudici di primo grado del processo trattativa non la pensano così. Nelle motivazioni, depositate tre mesi dopo la sentenza, proprio il 19 luglio, giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio, il Tribunale ha scritto che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottor Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Ameliio“. Per i giudici del processo Trattativa Stato-mafia, “non vi è dubbio” che i contatti fra gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno con Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato. Domani comincia il processo di secondo grado. Prevista la relazione introduttiva del giudice a latere del dibattimento. E poi si entra nel vivo.
La difesa del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno ricorda le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca e del giudice Liliana Ferraro. “Perfino Brusca, cioè la ”parte mafiosa”, ha affermato che i Carabinieri li avevano presi ”in giro. Ma quelli avevano fatto solo e semplicemente il loro lavoro, gli investigatori”, come disse il pentito in un’udienza il 12.12.2013 . “Stupisce come si possa affermare l’esistenza di una ”trattativa” ed, altresì, l’esistenza di un accordo“. E ancora: “Liliana Ferraro, che incontra il Capitano De Donno intorno al 20-25 giugno 1992, ha riferito che De Donno piangeva per la morte di Falcone e le disse (nel 1992), in merito a Vito Ciancimino, che ”bisognava fare di tutto per cercare di scoprire gli autori di questa … strage e che lui si era ricordato di avere conosciuto in passato il figlio dell’ex sindaco di Palermo inquisito negli anni ’80 da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Caponnetto e che aveva incontrato questo figlio di Vito Ciancimino anche di recente e che forse valeva la pena di vedere attraverso il figlio se era possibile contattare il padre e vedere se il padre, visto quello che era successo, era disponibile a collaborare con i Carabinieri”.
Su quei contatti con Vito Ciancimino, i giudici che hanno assolto Mori in due processi hanno scritto: ”Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di ”pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a ”cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione ”lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato“. E ancora: “Anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare od uccidere il cap. De Caprio, di cui hanno riferito in dibattimento, in termini coincidenti, i collaboratori Guglielmini, Cancemi e Ganci, appaiono in aperta contraddizione con la tesi della consegna del Riina al Ros”. “Se così fosse avvenuto, il boss non avrebbe avuto alcun interesse alla ricerca del capitano ”Ultimo”, mentre, da quanto sopra, è stato accertato che effettivamente si cercò di individuarlo, tramite un amico del compagno di gioco al tennis”. (AdnKronos)