Il brigadiere Tripodi contrastava l’anonima sequestri che spremeva e accumulava miliardi attraverso il sequestro di uomini, donne, bambini, coppie di fidanzati, mamma e bambino insieme, tenuti alla catena, trattati come bestie, carne viva da prendere e tenere in fresco per mesi, anni, in attesa del riscatto
L’industria dei sequestri negli anni ’70 e ’80 era fiorente nella Locride. Decine e decine di sequestri compiuti in Piemonte, Lombardia, Lazio oltre che nella provincia di Reggio Calabria erano gestiti da poche cosche di San Luca e Platì. Un affare da centinaia di miliardi, un’accumulazione di capitali imponente, condotta in maniera selvaggia e brutale a costi bassissimi. Tante persone inghiottite per sempre dall’Aspromonte: il vecchio farmacista Vincenzo Macrì rapito a Mammola, la signora Mariangela Passiatore, rapita a Bianco, l’ingegnere De Francesco rapito a Bovalino, la giovane Cristina Mazzotti rapita in Lombardia, il possidente Colistra rapito tra Riace e Stignano, il giovane Andrea Cortellezzi rapito a Busto Arsizio, l’anziano possidente Vincenzo Medici rapito a Bianco, il radiologo Pasquale Malgeri rapito a Siderno, Giancarlo Conocchiella rapito a Lamezia Terme, il fotografo Lollò Cartisano rapito a Bovalino. E tanti restituiti segnati nel corpo, distrutti nell’anima per sempre. Tante violenze, tanti stupri non denunciati, sofferenze fisiche inimmaginabili, intere famiglie di professionisti costrette a lasciare per sempre il proprio paese, altre lacerate, impoverite. E oltre ai sequestri, i traffici di droga con l’Australia, gli Stati Uniti, l’America latina e le città del nord Italia. Tantissimi gli omicidi di mafia con molte vittime innocenti rimaste senza un perché, tra i tanti misteri rimasti insoluti. Ed uno dei capi della Cupola palermitana costituitosi “trafelato” alla Stazione dei Carabinieri di Africo dopo una visita improvvisa, quanto misteriosa, al parroco di Africo. A fronteggiare questa armata implacabile e feroce due sostituti procuratori, una Squadra di polizia giudiziaria composta da quattro militari, e poi nelle Stazioni e nelle Compagnie giovani sottufficiali e ufficiali dei Carabinieri. Il volo inutile degli elicotteri il giorno dopo ogni sequestro. Il disinteresse di tutti, anzi il gioco al massacro contro coloro che facevano il loro dovere come potevano. Ispezioni ministeriali sulla base di dossier anonimi, false veline del Sisde contro i magistrati, false raccomandazioni di politici per fare trasferire il comandante della Squadra di polizia giudiziaria, processi disciplinari, processi penali, richieste di risarcimenti per miliardi di lire. Ma l’anno 1985 era un anno importante per il brigadiere Carmine Tripodi, 25 anni da compiere il 14 maggio, comandante della Stazione Carabinieri di San Luca; era l’anno in cui si sarebbe sposato, l’anno in cui l’amore per Luciana, quella ragazza mite e dolce che lo attendeva ogni sera, per trascorrere con lui l’ora di cena, si sarebbe trasformato in una unione felice. Il giorno 5 febbraio 1985, il brigadiere Tripodi aveva guidato il giudice istruttore di Napoli dr. Guglielmo Palmeri in una ispezione dei luoghi con l’ingegnere De Feo e i difensori degli imputati. In quella circostanza aveva fornito informazioni circa la proprietà degli ovili e il possesso dei pascoli nelle zone ove erano state individuate le prigioni del sequestrato. La sera del 6 febbraio 1985 non arrivò a Bianco dal capitano Claudio Vincelli né dalla sua Luciana; lungo la strada, a bordo della sua autovettura, appena fuori da San Luca trovò la morte e a nulla valse la sua reazione immediata e l’esplosione di sei colpi dalla sua pistola di ordinanza. Ma la decisione di uccidere il brigadiere era stata presa già l’anno prima. In un giorno d’estate, era l’otto luglio del 1984, il brigadiere dei carabinieri Carmine Tripodi con un gruppetto dei suoi uomini della Stazione di San Luca si era incamminato, come era solito fare, per i sentieri delle montagne attorno a San Luca. Giunto in località Pietra Castiglia aveva notato qualcosa di strano; gli uomini si erano appiattati nei pressi di un ovile e poco dopo si erano avvicinati sino a interrompere una vera e propria riunione di una cosca; nel gruppo di sette persone spiccava un latitante perché colpito da un ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Napoli per il sequestro di persona di Carlo De Feo, un ingegnere napoletano, “custodito” in Aspromonte per la cui liberazione, avvenuta nel febbraio 1984, venne pagato un riscatto di oltre quattro miliardi di lire. Alle indagini per quel sequestro, dirette dalla Procura della Repubblica e dal giudice istruttore di Napoli, il brigadiere Tripodi aveva dato un contributo prezioso; aveva individuato otto rifugi ove era stato il sequestrato, aveva individuato persone, aveva fornito l’organigramma delle cosche. Nell’occasione del giorno 8 luglio vennero arrestati pure gli altri sei per favoreggiamento personale ma non rimasero a lungo in carcere. Alcuni erano parenti del latitante e pertanto non punibili, gli altri dissero che si erano incontrati per caso. La pistola rinvenuta se l’accollò il latitante. Non era frequente che i carabinieri capitassero in un ovile di montagna sorprendendo sette esponenti di una cosca mafiosa che, successivamente, comprese chi informava il brigadiere Tripodi. La sorte di Giuseppe Giorgi, considerato infame, era segnata. Sapeva troppo; addirittura era al corrente del progetto di uccidere il brigadiere. Non era affidabile, non aveva tenuta, aveva fatto nomi appena messo alle strette dai Carabinieri.
Nel processo per l’omicidio di Giuseppe Giorgi venne fuori che il ragazzo nel settembre 1984 aveva rivelato alla madre un progetto di ammazzare il brigadiere, confidenza che aveva ricevuto proprio da un esponente della ‘ndrangheta. Il brigadiere Tripodi contrastava l’anonima sequestri, quella macchina perfetta che gestiva l’Aspromonte come un caveau inaccessibile, che spremeva e accumulava miliardi attraverso il sequestro di uomini, donne, bambini, coppie di fidanzati, mamma e bambino insieme, tenuti alla catena, trattati come bestie, carne viva da prendere e tenere in fresco per mesi, anni, in attesa del riscatto. Giuseppe Giorgi, malgrado il cognome, non era un rampollo di famiglie mafiose, non “apparteneva” a famiglie potenti; era un ragazzo normale nato e cresciuto in un posto sbagliato; stava facendo il servizio militare, era tornato al suo paese in convalescenza ed il brigadiere aveva dato parere favorevole per la proroga della convalescenza. Ed anche questo venne notato in paese. Così il 31 dicembre mentre nel paese risuonavano colpi di pistola e fucili per festeggiare il nuovo anno, qualcuno sparò un colpo di pistola alla testa di Giorgi, che rimase là sulla strada, senza avere potuto vedere il nuovo anno. Il 5 febbraio 1985 il brigadiere fece ancora una volta, come sempre, il suo dovere, in montagna con il giudice, ma la sera del 6 febbraio, 25 anni ancora da fare, non incontrò Luciana, ma i pallettoni dei fucili che spensero i suoi sogni e la sua vita. Ai funerali, lo Stato fu rappresentato dal Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Gen. Riccardo Bisogniero. Le indagini furono condotte dai Carabinieri, diretti e coordinati dal dr Ezio Arcadi. I procedimenti penali relativi all’omicidio del giovane Giuseppe Giorgi e del brigadiere Carmine Tripodi si conclusero senza condanne.
Ten. Cosimo Sframeli