Il Coronavirus ferma la pesca del pesce spada tramandata a Scilla dalla generazione dei Polistena

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La pesca del pesce spada tramandata a Scilla dai Polistena, una generazioni di pescatori tra “ncipiti l’asta” e “cardata”, ora ferma per colpa del Coronavirus

La “caccia al pesce spada” è una delle più antiche e caratteristiche pratiche di pesca che i pescatori di Scilla ed in particolare, i “Chianaleoti”, gli abitanti del rione “Chianalea”, portano a compimento ancora oggi. La famiglia Polistena è una delle poche che ha resistito nel tempo, tramandandosi l’arte della pesca del pesce spada: “abbiamo storia, leggenda, tradizione, ricchezza, coste e monti tra l’area dello Stretto e le Isole Eolie e siamo falliti. Mai visto a Scilla una situazione del genere da dopo la guerra e i giovani che faranno?” Intere famiglie, infatti, per tradizione, si occuparono di questa pesca e gli anziani che un tempo rispondevano ai nomi di Patr’a N’toni, Patr’a Franciscu, Patr’a Giuanni, cioè esperti padroni di barca e profondi conoscitori del mare e quindi dei suoi inganni, delle correnti, del tempo e dei mestieri di pesca. Infatti “U patruni”, cioè il comandante supremo della “ciurma”, è colui che ha la grave responsabilità di saper condurre le operazioni di pesca, di essere sempre pronto e abile a risolvere, in brevissimo tempo, tutte le varie problematiche legate a questo mestiere e soprattutto, acquistare sempre con i suoi comportamenti, la sua legittimità e soprattutto la stima dei suoi marinai, al fine di raggiungere il grande e unico obiettivo, pescare il pesce spada. Esercitata dai Greci, come ricorda Polibio (storico greco del II sec. a.C.), questa pesca ebbe l’onore di essere cantata da poeti e latinisti di fama.

Verso la fine del seicento, infatti, il Gesuita napoletano Nicolò Partenio Giannattasio, insegnante in un collegio di Reggio Calabria, cantò tale pesca nell’opera “Haleiutica”, ispirandosi direttamente, poichè fu invitato a Scilla dal principe Francesco Maria Ruffo, per assistere dal Castello tale interessantissima pesca. La pesca del pesce spada si esercita durante il periodo che va da Aprile a Luglio, subito dopo lo Stretto di Messina e precisamente da Ganzirri, al tratto che va da Cannitello a Scilla, fino Bagnara Calabra e Palmi, cioè nella zona chiamata “Costa Viola”. Ma colui che sopra ogni altro ha immorlato la “caccia del pesce spada” fu il poeta Diego Vetrioli che cantò Scilla e il suo pesce con un poemetto che gli fruttò il premio dell’Accademia di Amsterdam, “Ma scoppia un fischio: marinieri all’erta! il pesce! il pesce! voga voga, investasi, ve’ pei gorghi Scillei ratto si spazia, il lanciatore sta ritto sulla poppa e il ferro a piombo avventa, e se ne trapassa il pesce. Cade il tridente ma impigliato al fianco, attiensi del legnetto in mezzo l’onde, si dimena lo Xiphia e invan dal corpo, di sferrara l’alta lancia si affatica. Sta la punta mortal nel corpo infissa! Scelti carzoni a la morente belva, vanno i lacci allentando: ella tuttora, qua e là discorre coi lentati lacci, e fra la dubbia speme i fuggitivi, spirti richiama e in su lo stremo istante, tuttor le ciurme ostili ella minaccia, finché dal corso stanca ed in gran pena, il piagoso pel mar dosso traendo, sosta e col sangue anco la vita esala”.

E’ la descrizione questa del momento più felice della pesca, quando il pesce viene preso con la fiocina e sollevato in barca, la battaglia è vinta e il grido di giubilo: “San Marcu è binirittu!” innalzato dalla ciurma festeggia l’evento ringraziando San Marco, Santo protettore del “lanziaturi”, cioè l’arpioniere o lanciatore. Un tempo la difficoltà di questa straordinaria pesca, dipendeva dalla distanza che intercorreva tra il lanciatore e il “bandiaturi” che veniva superata dalla velocità impressa alla barca piccola, “u luntri”, lunga dai 5 ai 7 metri, senza chiglia, alla quale veniva richiesta la massima stabilità, con un equipaggio di quattro rematori: i primi due, più forti, scelti tra i giovani più muscolosi remavano nella posizione avanzata della barca cioè “i puppa” e “ru menzu”, mentre gli altri due tra i più esperti, nel vogare davano il giusto tempo e sincronismo, “ca paleddha legata allo scalmo con lo stromo”. Lo scalmo è ciascuna delle caviglie alle quali si lega il remo con uno stroppo durante la voga, legato in modo particolare con delle cordicelle, “u stromu”, fissate alla falchetta dell’imbarcazione in modo da far “gioco”. U “bandiaturi” è la vedetta affacciata tra “schegge e dirupi” che agitava freneticamente una banderuola, tenuta in mano, non appena avvistava l’adorato pesce, iniziava ad urlare con voce concitata ma chiara e lungamente: “Va jusu, va! Va jusu, an terra va! Va susu, va! Va susu e fora va! Va paccà!” A seconda che il pesce si trovasse verso destra o sinistra rispetto alla barca e verso la costa o a mare aperto. Il “falerotu”, il marinaio che stava sul piccolo albero della barca detta “faleri”, verificava la zona del pesce spada dal “bandiaturi” e non appena avvistava il pesce spada, iniziava con i concitati comandi rivolti ai rematori: “Voca tutti i paleddhi e tuttu paru!”. Se la barca doveva procedere in avanti diritto: “Arria tundu a paleddha!, “Arria tundu lu stromu!”, a seconda che la barca dovesse girare verso destra o verso sinistra per raggiungere il pesce. Non appena il pesce spada si trovava sotto la barca il “falerotu” attivava l’arpioniere con il suo ultimo comando “Ncimiti l’asta”. Gli arpioni venivano inseriti a due “mascitti” ad incastro sui bordi a destra e a sinistra dell’arponiere, tavole verticali con due scalmiere ciascuna, dove a portata di mano riposavano trasversalmente le aste degli arpioni.

L’arpioniere, dunque, afferrava l’asta di elce che reggeva la speciale fiocina, la quale veniva legata alla imbarcazione con una lunga lenza, cercando di cogliere il momento giusto per lanciare la fiocina. Il fasciame del lontre era sottile e leggero e la barca era dipinta esternamente di nero in modo da risultare meno visibile al pesce, e di verde nella parte interna, ma talvolta, il pesce, insospettito, ritornava lo stesso al fondo, deludendo tutto l’equipaggio. Il pesce riaffiorava magari più in là e allora la ciurma passava dall’amarezza all’agitazione in brevissimo tempo. Riprendeva quindi la pesca come una vera e propria gara, fatta di ritmi frenetici e con l’adrenalina al massimo, fino a quando l’abilità degli uomini finiva col vincere la velocità del pesce. Il pesce spada, una volta salpato viene ancora oggi segnato sul viso con “cardata” in segno di rispetto e perdono, gesto che proviene dall’antica Grecia. Nell’era moderna il piccolo “luntri” è stato sostituito da una barca più grande, detta “Passerella”, poiché è provvista di una struttura metallica appoggiata sulla prua della barca, in modo da consentire di fare a meno del vecchio “bandiaturi”. La Passerella è munita, infatti, di un altissimo albero metallico, dove proprio sulla parte superiore gli “avvistaturi” salgono e dirigono con dei comandi, le operazioni di navigazione ed aiutati da un potente motore. L’unica strategia è quella di portare nella migliore posizione, il lanciatore. La Passerella permette il cammino “facilitato” all’arpioniere dato che, il compito di colpire il pesce spada è l’atto fondamentale per l’intera pesca del pesce spada.

Enrico Pescatore

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