Coronavirus: questa tragedia è il risultato di una serie di drammatiche circostanze dove i sanitari non hanno tutte le colpe
I familiari delle vittime si interrogano su quelle bare accuratamente ordinate e riprese dalle telecamere, uno strazio nella già angosciosa sofferenza. Le domande sfiorano il dramma, che si consuma ancora una volta dove la speranza è quotidianamente contraddetta dalla realtà. Di fronte alla verità del dolore e alla dignità della sofferenza qualsiasi considerazione di ordine politico appare secondaria. Da una parte, un Paese diviso, quello della politica, dall’altra un Paese unito nel rendere omaggio a tutti i suoi morti: a coloro che hanno perso la vita compiendo il proprio dovere nel segno della solidarietà, nonché a quelli divorati dal virus, vittime del Covid-19. Con contegno, ispirato a grande compostezza, non dimentichiamo che sono morti in nome di tutti noi, prescelti da un destino avverso, e il cui sacrificio desta profonda emozione. Sarà pur vero, com’è tristemente vero, che questa tragedia è il risultato di una serie di drammatiche circostanze dove i sanitari non hanno tutte le colpe. Un pensiero spontaneo vola ai ricoverati intubati nelle sale di rianimazione, tenuti in vita da un esile filo della sorte, nonché alle persone che resistono, con coraggio e tribolazione, alla morte e alla malattia, nelle corsie di ospedali o nelle proprie case. Al di là delle divisioni, che contraoppongono gli uni agli altri, è un solo orizzonte che abbraccia tutti, perché nessuno dovrebbe vivere solo e nessuno vorrebbe vivere da solo e, quel che è peggio, senza affetto. Da uno sfondo cupo e terribile, dove tutto sembra precipitare in un caos irrimediabile e dove la sola logica intravista è quella di una guerra invisibile, giungono le immagini luttuose a darne la misura. Sono le immagini dei feretri, su cui ognuno si china consapevole che, per gli orrori da cui provengono, risparmiati dal mondo degli inferi, saranno accolti in quell’angolo di cielo riservato ai coraggiosi, esempio di resistenza. E’ la morte amara, che non consola chi ha perso l’affetto più caro di una vita, laddove anche le lacrime hanno una loro luce, come le ferite più difficili a rimarginare. Il condividere il dolore riconosce un’appartenenza comune, che va al di là di ogni umana convivenza. Disorientati e scossi, non è stato possibile dire addio con amore agli scomparsi, impediti a stringere la mano di qualcuno amato prima di andarsene per sempre, privi di poter pronunciare le ultime volontà e senza possibilità di ricevere le esequie funebri che la famiglia avrebbe voluto scegliere. Nel campo 87 del cimitero Maggiore, informa il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, è stata organizzata una fossa comune, come nei cimiteri di guerra, dove sono state sepolte persone morte per il coronavirus, non reclamate dalle famiglie. Spiccano sessantuno croci bianche, che individuano i caduti del Codiv-19, sotterrati alla presenza dei dipendenti del comune. Dall’esperienza del male e della morte, che non vorremmo mai capitasse e, nella speranza, giunga la salvezza nel ripensare le ragioni dell’etica del convivere civile. Per pudore, e per ciò che vale, si fa fatica a dire: Non sono morti invano, ma forse in un mondo così arido e spietato, è valso a qualcosa. L’attesa, dove “tutto andrà bene”, equivale a una lampada accesa nel buio della notte, non importa se piccola, che arde e conforta, a testimonianza di un mistero che nessuno è riuscito a spiegare fino in fondo: il mistero di questo amore più durevole di tanti affetti umani.
Cosimo Sframeli