Messina, il Coronavirus raccontato da chi lo ha vissuto: la Dott.ssa Elena Andò in servizio al Covid Hospital ai microfoni di StrettoWeb [INTERVISTA]

StrettoWeb

Messina. Il racconto di chi ha affrontato in prima linea l’emergenza coronavirus dalle prime fasi in cui le mascherine mancavano perfino agli operatori sanitari, all’estrema preparazione del Covid Hospital

La dottoressa Elena Andò, 28 anni, all’esordio della sua vita professionale si è trovata improvvisamente catapultata in una delle crisi sanitarie più gravi che l’Italia si sia mai trovata ad affrontare. Ci racconta la sua esperienza dal servizio di continuità assistenziale sul territorio, fino al Covid Hospital di Messina.

Com’è stato il suo primo approccio professionale con l’emergenza coronavirus?

Le prime fasi sono state surreali perché le ho vissute su un’isola. Avevo la sensazione che ci fosse una discrepanza tra il panico generale e la percezione del pericolo sull’isola che essendo un ambiente più isolato tendeva ad attutire il tutto“.

Com’è stata affrontata sul territorio la prima fase dell’emergenza?

Era la prima metà di marzo ed ero di guardia alle Isole Eolie quando mi è arrivata la comunicazione che dal turno successivo non avrei più dovuto far entrare i pazienti qualora avessero presentato una serie di sintomi indicati in una circolare dell’Asp. Ma, come dicevo, la gente non aveva ancora chiara la situazione e si sono verificati diversi episodi in cui i pazienti davano in escandescenza una volta che gli veniva rifiutato l’accesso in guardia“.

Ci era stata data anche disposizione di effettuare visite domiciliari solo se muniti di Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) completi, quindi muniti di tuta. All’inizio non tutte le guardie erano fornite di tuta ed in generale c’era carenza di dpi. All’epoca ho trovato che le protezioni di cui disponevamo non fossero sufficienti per tutelarci da un eventuale contagio da parte di un paziente infetto. Per questo motivo si cercava di intervenire in sinergia con 118 e ospedali per avere supporto. Tutt’altra storia al Covid Hospital“.

Com’è stata la sua esperienza in questa struttura specializzata?

Molto differente, tanto che anche se può sembrare paradossale credo che il rischio più alto lo abbiano corso i medici sul territorio o quelli di altri reparti. Innanzitutto tutti siamo stati istruiti su come vestirci e svestirci, due momenti che presentano un alto rischio di contagio. In secondo luogo ritengo che la consapevolezza di avere a che fare con pazienti infetti faccia sì che ognuno sia istintivamente più attento ai rischi.
Il centro aveva anche un’ottima organizzazione logistica con percorsi ‘puliti’ e ‘sporchi’ per limitare la contaminazione dell’ambiente. Quelli sporchi erano quelli delle stanze dei pazienti o quelli adiacenti che servivano da cuscinetto.

E i dispositivi di protezione individuale?

Quelli erano alla base di tutto. La mattina ci veniva fornito un primo set di Dpi che andavano indossati per entrare all’interno del centro, anche per stare semplicemente al pc. Ci veniva consegnata 1 cuffia per capelli; 1 camice; guanti sterili; calzari fino al ginocchio ed un secondo paio di guanti da mettere sopra i primi fino a coprire la manica del camice, che veniva cambiato ogni volta che venivamo esposti ad un potenziale contagio“.

A chi doveva entrare dentro le stanze dei pazienti veniva data anche una tuta integrale ed una visiera o degli occhialini. Una volta usciti dalle stanze dei pazienti ci si svestiva, tutto il materiale veniva buttato nei rifiuti a rischio infettivo e ti veniva dato un nuovo kit di Dpi identico a quello che distribuito ad inizio giornata. Il tutto cercando, quando possibile, di evitare sprechi”.

È stato difficili abituarsi a passare ore e ore con tutto questo materiale protettivo addosso?

La cosa più complicata non è stata tanto abituarsi a sopportare i Dpi e i segni che ti lasciano addosso dopo averli indossati per intere giornate. Piuttosto è stato difficile gestire a livello psicologico lo stress che ti lascia il dover ripensare completamente alla tua gestualità, dalla quale devi eliminare qualsiasi impulso istintivo e fare in modo che sia assolutamente controllata in ogni momento. Rimani costantemente allerta riguardo a cosa tocchi, cosa prendi, a chi consegni questo oggetto e in che modo“.

Questa pressione ha avuto ripercussioni sulla sua vita privata?

In un certo senso sì. Io ho continuato a provare la sensazione di essere ‘sporca’ anche quando tornavo a casa. Il mio problema non era tanto la paura di essere contagiata, quanto quello di sbagliare una procedura e diventare veicolo di contagio per gli altri. Questo è il motivo per cui anche quando le restrizioni comuni a tutti si sono allentate ho passato un periodo in cui preferivo comunque evitare il contatto con altre persone, nonostante non fossi legalmente soggetta a quarantena.
Una vicenda tragicomica è stata quella del mio compleanno, capitato durante la fase in cui era possibile incontrare i congiunti. Per precauzione io e i miei genitori ci siamo incontrati all’aperto, a distanza, ciascuno con la propria mascherina che abbiamo tolto solo per mangiare la torta, ognuno sulla sua panchina“.

Cosa le viene in mente ripensando ai momenti positivi vissuti all’interno del centro?

Da un punto di vista professionale ho trovato positivo sotto il profilo del valore scientifico delle strategie che venivano adottate l’approccio multidisciplinare del team, voluto appositamente dal responsabile del centro, il dottor Antonio Versace. Io mi sono occupata prevalentemente di dati e dal mio punto di vista è stato bello vedere giorno dopo giorno i dati sui dimessi crescere. Quella realtà nata per un fine specifico e dimesso dopo dimesso avevamo l’impressione di starlo raggiungendo tutti in sime, come una squadra“.

Proprio l’affiatamento che si è creato tra di noi è stato un altro aspetto fondamentale per quanto mi riguarda. Era una situazione molto difficile da affrontare psicologicamente, spersonalizzante. Una volta, durante una pausa, mi tolsi la cuffia e i colleghi rimasero stupiti nel vedere la massa di capelli che avevo intesta. Nonostante lavorassimo insieme da diversi giorni, con la cuffietta sempre addosso si erano convinti che avessi i capelli corti. Era difficile perfino riconoscerci se ci incontravamo in macchina.
Ma nonostante tutto ognuno ha tentato rendere più umano l’ambiente con piccoli gesti, come personalizzazioni del nostro equipaggiamento che ci potessero rendere riconoscibili quantomeno tra noi. Ad esempio un collega ha creato con la sua stampante 3D dei fermagli per tenere ferme le cuffiette che utilizzavamo“.

Cosa le resta di questa esperienza sotto il profilo umano?

Soddisfazione per i risultati che tutto il team è riuscito ad ottenere ma anche una grandissima ammirazione per il modo eroico di vivere la morte da parte di chi non ce l’ha fatta e dei loro familiari. La lontananza che c’era al momento del trapasso tra i pazienti e i loro cari mi ha fatto pensare a scene di guerra. Questa distanza, l’impossibilità per chi restava perfino di ricevere gli amici e i parenti a casa per una parola di conforto perché in pieno lockdown è qualcosa che non fa parte della nostra cultura ed è stata emotivamente difficile da affrontare“.

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