L’Inno di Mameli di Sergio Sylvestre e la figuraccia della FIGC
Questo scritto aizzerà i buonisti di tastiera, le truppe cammellate del politicamente corretto e di coloro che in ogni parola o ogni gesto gridano al razzismo. 80 anni dopo.
Qui invece il razzismo ed il fascismo non albergano, nemmeno in una situazione di riparo o di fortuna. E’ bene chiarirlo subito, affinché ci possa affrancare a questa breve lettura scevri da possibili pregiudizi o stereotipi di qualsiasi tonalità.
Ieri la Federazione Italiana Giuoco Calcio è riuscita nell’intento di far passare in secondo piano l’assegnazione del primo trofeo post Covid.
Il Napoli trionfatore della Coppa Italia annebbiato da una clamorosa gaffe nel pre-partita: l’uccisione dell’Inno d’Italia. Un omicidio in piena regola.
Sergio Sylvestre è cantante poco conosciuto.
Trentenne, statunitense, nel suo curriculum può vantare la vittoria ad uno dei più importanti “talent” show canori italiani, quell’Amici di Maria de Filippi che negli ultimi dieci lustri ha rappresentato un “passepartout” per una sicura carriera musicale. Non è certamente un big della canzone italiana, apprezzato dai teenager, meno dagli altri.
Sulla bontà o meno delle sue produzioni è inutile addentrarsi, è sempre materia soggettiva.
Ha un aspetto simpatico Sylvestre, ma ieri sera all’Olimpico ha toppato.
Ha dimenticato una strofa della canzone più importante per gli italiani: il loro Inno. Che probabilmente non sarà l’inno di Sylvestre (nonostante il cantante statunitense viva in Italia dal 2012) ma che per sessanta milioni di persone (ma anche per gli emigrati all’Estero) rappresenta il livello massimo di aggregazione, di unione, di appartenenza.
L’Inno nasce nel 1946, nel pieno clima di fervore patriottico con un richiamo autentico e spiccato alla necessità di “ritrovarsi a coorte”, di rimanere compatti e di essere addirittura disposti a morire per l’Italia. Per gli Italiani.
Qualcuno lo ha spiegato a Sergio Sylvestre il valore di ogni singola sillaba dell’Inno d’Italia? Un valore che oggi è ancora maggiore, perché il sentimento nazionale spicca dopo tre mesi orribili che hanno ferito il nostro Paese e che oggi più che mai, proprio nelle piccole cose cerca di rialzare la testa e di leccarsi le atroci ferite (spesso mortali).
Per non parlare della chiosa finale con cui il cantante ha deliziato il pubblico (televisivo s’intende), “pugno alzato” e motto comunista come a voler marchiare l’Inno Nazionale, come a voler timbrare l’appartenenza di quel testo e di quello spartito ad una parte politica scacciando invasori fantasma e ghettizzando una parte più che un’altra.
Il punto è che all’artista non gli si possano attribuire più colpe di quante ne abbia in realtà. Ha steccato, ha sbagliato, ha dimostrato di non essere all’altezza di un evento simbolicamente così importante per l’Italia e gli Italiani ma la responsabilità maggiore è di coloro i quali hanno permesso questo.
Istituzioni superficiali capaci, in un colpo solo, di uccidere l’Inno e la sua storia.
E, subito dopo, di nascondersi come i ragazzini beccati con la mano nella marmellata. “Cuor di leone”…