Smart working, pratica riservata a pochi prima del lockdown, enormemente estesa dal momento della riapertura fino ad oggi. Potrebbe portare ad un cambiamento radicale nella abitudini di vita degli italiani?
Con lo sdoganamento dello smart working in Italia, durante i mesi di lockdown dovuto al coronavirus, si è diffuso un secondo effetto, per così dire collaterale, di tale prassi che ha assunto la definizione di South Working.
Ovvero il fenomeno per il quale i moltissimi emigrati del Sud ritornano nelle loro città di origini continuando a lavorare, da remoto, presso aziende del Centro-Nord.
Il fenomeno ha generato anche una vera e propria community, neanche a dirlo online, che ha nel gruppo Facebook “South Working” una sua nutrita rappresentanza.
Come riportato dall’Ansa sul gruppo è possibile trovare già moltissime testimonianze dei tanti che si stanno trovando a vivere questa nuova esperienza, come Silvia operatrice del settore turistico, 34 anni, che da Bologna si sta per trasferire insieme alla famiglia in provincia di Catanzaro, in una località di mare. Silva che durante il lockdown ha partorito, ha trovato nell’esperienza di rimanere confinata in 40 metri quadri con un neonato la spinta finale per cambiare vita, in considerazione della migliore qualità della vita e dei costi inferiori che il Sud le avrebbe offerto.
Come lei anche Roberto, 34 anni, manager in una compagnia di telecomunicazioni, ha deciso di cambiare in parte la sua vita ed in Calabria ci si è già trasferito: “L’azienda ha agevolato il lavoro agile e molti di noi ora lavorano dal sud“.
Più lungo il viaggio di Margherita, 28enne programmatrice web, che dopo aver studiato e vissuto in Olanda per 5 anni è tornata in Sicilia già a maggio. “Ho chiesto al mio team se potessi rientrare in Italia prima del lockdown e poi sono rimasta – racconta Margherita –. La mia compagnia ha messo fin da subito al primo posto il benessere di noi impiegati e un’eccezione come la mia è stata inizialmente compresa e supportata, infine regolarizzata. Sono tornata a Palermo per stare con miei genitori. In tanti ci troviamo costretti a lasciare la Sicilia perché non c’è lavoro, sapendo di essere ‘cervelli in fuga’. Ora torno a combattere dove ci sono le mie radici“.
Ma non tutti optano per scelte radicali. Il Lavoro agile, infatti, che tecnicamente differisce dal telelavoro, ha consentito a molti anche semplicemente di “allungare” le proprie vacanze lavorando dal luogo di villeggiatura, o chi ne approfitta per fare spostamenti temporanei, senza per questo interrompere l’attività lavorativa. In un ottica che sembra avvicinarsi a quella del “nomadismo digitale” ma alla portata di sempre più lavoratori, compresi quelli un tempo vincolati alla sede fisica della propria azienda.
Ed è questo il contesto in cui nasce il progetto South Working e figlio dell’omonima associazione no profit, il cui obiettivo è “studiare il fenomeno dello smart working localizzato in una sede diversa da quella del datore di lavoro, in particolare del Sud d’Italia e d’Europa, con i suoi pro e contro; aiutare lavoratori che vogliano intraprendere questa modalità di lavoro; formulare delle proposte di policy“.
Nata a marzo, dopo la diffusione della pandemia, l’associazione è stata promossa da giovani che lavorano “dove desiderano vivere” aderendo al “movimento internazionale Work From Anywhere”.
Secondo i dati Istat nel 2019 lavoravano da casa circa 1,3 milioni di persone. Cifra cambiata dopo la pandemia e che adesso certifica circa 7 milioni persone i regime di Smart Working.