Donald Trump ha fatto perdere la bussola anche ai commentatori più compassati ma animati da un ‘pregiudizio sfavorevole’ nei suoi confronti
Donald Trump ha fatto perdere la bussola anche ai commentatori più compassati ma animati da un ‘pregiudizio sfavorevole’ nei suoi confronti. Per esempio, Sabino Cassese, in un recente articolo sul ‘Corriere della Sera, ha argomentato con un ragionamento storico-costituzionale piuttosto zoppicante la sua tesi secondo la quale “Trump non si è rivelato un problema solo per il suo Paese, ma anche per la democrazia”. Anzitutto egli individua nella sostanziale immodificabilità il principale difetto della Costituzione americana, dimostrato, a suo dire, dal fatto che, nei suoi 200 e passa anni di vita, essa “ha avuto … solo 27 emendamenti, nonostante ne siano stati proposti più di diecimila [ed] è anche una delle più difficilmente emendabili (ambedue le procedure di cambiamento previste sono troppo complicate e farraginose)”: si tratta sicuramente di un ‘lapsus’ perché forse egli dimentica che la regola della ratifica da parte dei tre quarti degli stati s’impone in una federazione, e che, seppure pochi, sono stati questi 27 emendamenti a segnare la storia americana con il Bill of rights, l’abolizione della schiavitù, l’income tax federale, il proibizionismo e la sua abolizione, la composizione e l’elezione del Senato, la garanzia del diritto di voto a tutti i cittadini, il limite ai mandati presidenziali. Cassese dice che la Costituzione americana, «che ha disegnato un sistema politico preso a modello in tutto il mondo, mostra tutti i suoi anni ed è ben poco esemplare»; in sostanza è ‘vecchia’, mummificata: forse egli preferisce le costituzioni alla francese, non solo quelle ‘cangianti’ dell’epoca rivoluzionaria, ma anche quelle delle varie repubbliche (finora 5)? Inoltre egli si contraddice in termini quando poi afferma che la costituzione americana è stata addirittura modificata, di fatto, da due fattori che si sono, diciamo così, auto-sviluppati.
Il primo sarebbe il ruolo assunto dalla Supreme Court che, a suo avviso, è divenuta l’unico organo, piuttosto autocratico dal momento che i suoi giudici sono inamovibili, “in grado di adeguare i principi costituzionali alla realtà di oggi”. Cassese giudica questo sviluppo tale da “squilibrare completamente il sistema, dando un potere enorme alla Corte Suprema … [questa] detta legge. Non si spiega altrimenti che anche la morte di un giudice abbia il rilievo della scomparsa di un sovrano». Una ben strana affermazione da parte di un ‘giudice emerito’ della nostra Corte Costituzionale, autore di molte delle famose sentenze ‘additive’ che hanno dettato indirizzi al legislatore; temo fortemente che tale forte riserva contro la Supreme Court americana sia stata suggerita a Cassese dalla ‘nomina di mezzanotte’ che Trump ha fatto di un giudice – Amy Coney Barrett – dal quale evidentemente Cassese paventa un cambiamento di indirizzo giurisprudenziale di quella corte: mi pare però che era lo stesso Cassese quello che plaudiva alle sentenze della Supreme Court quando servivano all’affirmative action. E, dunque, delle due l’una: o la Supreme Court sbagliava prima o può cambiare legittimamente indirizzo anche seguendo quelle che Cassese definisce “le strane idee degli “originalisti” (lo era il giudice costituzionale Antonin Scalia e lo è la nuova giudice Amy Coney Barrett, sua seguace), per cui i giudici debbono sempre rispettare l’originaria volontà di chi scrisse una Costituzione antica di quasi due secoli e mezzo”. Un altro punto debole della Corte Suprema (e delle altre corti federali), messo in rilievo da Cassese, è il sistema di nomina dei suoi membri «messi sullo stesso piede di un re o del Papa, perché titolari della carica a vita. Questo non è solo un inconveniente in sé, perché assicura ricambi lentissimi, ma anche la fonte di un’altra stortura, perché permette, a caso, al presidente che debba nominare più di un giudice di lasciare una impronta della sua politica molto al di là del proprio mandato”.
È stato sempre riconosciuto da tutti – compreso Tocqueville che disse necessario che “i giudici federali non siano soltanto dei buoni cittadini … ma, anche, degli uomini di stato che sappiano capire lo spirito dei loro tempi” – che la durata a vita della carica di giudice federale fosse la vera garanzia della sua indipendenza: sorprende dunque che Cassese, il quale è arrivato alla Corte Costituzionale con nomina ‘politica’ del Presidente della Repubblica, si possa meravigliare della caratura politica dei giudici americani; piuttosto è la durata a tempo della carica dei giudici a rendere pericolosa la loro commistione con la politica come dimostrano le porte girevoli che li fanno passare dall’una all’altra parte.
L’altro difetto del sistema costituzionale americano, secondo Cassese, sarebbe quello di aver consentito «la crescita a dismisura dei poteri del presidente». A parte il fatto che i poteri del presidente che egli elenca sono esattamente quelli che la Costituzione gli attribuisce circondandoli di un preciso meccanismo di ‘checks and balances’ e che nessuno di essi è stato usurpato, egli sbaglia nel dire che, “in origine, il presidente non aveva un ruolo tanto importante … [tanto è vero che ] Taft lasciò con piacere la carica per insegnare e poi divenire Chief Justice”: forse Cassese non ricorda che, in realtà, Taft venne duramente sconfitto perché contro di lui scese in campo Theodore Roosevelt, il quale l’aveva appoggiato quattro anni prima; forse egli non ricorda che il ‘Farewell address’ di George Washington ha segnato la politica estera americana per più di 100 anni e che il gabinetto ‘federalista’ da lui formato ha costruito l’America come noi la conosciamo; che Andrew Jackson ha dato vita alla democrazia di massa con la conseguente personalizzazione della presidenza e fece pure la ‘Bank war’; che Lincoln ha fatto la guerra civile e ha emancipato gli schiavi; e potremmo continuare a lungo con le citazioni. La ‘presidenza imperiale’ di cui egli parla citando Bruce Ackerman, è nata dal ruolo assunto dagli Stati Uniti nell’arena mondiale, con i Wilson, con i Roosevelt, con i Kennedy piuttosto che con Trump.
Il vero oggetto della critica di Cassese è Trump e, pur di buttare via l’acqua sporca, egli butta via anche la costituzione americana mettendo in dubbio la capacità di servire la democrazia e alla democrazia perché “il presidente americano parla a nome della nazione, ma non è eletto dal popolo … per essere eletti occorre assicurarsi la maggioranza degli Stati, non la maggioranza dei voti popolari (nelle votazioni del 2016 la signora Clinton ebbe quasi 3 milioni di voti in più di Trump e perdette). Questa contraddizione è accentuata dalla spinta estremistica di un presidente come Trump, che ha polarizzato tutta la sua politica ed è giunto a minacciare di non riconoscere il risultato elettorale”. Da un costituzionalista della levatura di Cassese non ci saremmo mai aspettati una tale topica come da un signore raffinato com’egli è non ci aspetteremmo che dia della signora alla Clinton e poi strapazzi Trump tanto da farne un archetipo di presidente piuttosto spregevole! Egli dimentica che abbiamo a che fare con una ‘federazione’ che elegge un presidente degli stati e pare afflitto da vuoti di memoria tali da fargli preferire al magnifico motto americano – e pluribus unum – l’altro europeo – in varietate concordia – perché, se il primo simboleggia il patto federale, non avrebbe però dietro di sé l’unità della popolazione. A questo punto, lanciando il cuore oltre l’ostacolo, Cassese afferma, delirando, che «l’Unione Europea … è più unita degli Stati Uniti d’America, tante volte presi ad esempio dei futuri sviluppi dell’Europa. Quel Paese che si vanta di essere un ‘melting pot’ … ha al suo interno divari che sono più forti di quelli territoriali, che noi abbiamo in Europa».
E, infatti, questi di Cassese non sono vuoti di memoria o topiche ma soltanto ciechi eccessi polemici contro Trump che, però, predicati da un pulpito come il ‘Corriere della Sera’, fanno un cattivo servizio all’opinione pubblica.