Elezioni Usa 2020: i sospetti di brogli elettorali sono sempre difficili da provare

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Elezioni Usa 2020: anche se il suo ricorso fosse infondato, Trump ha pieno diritto a una validazione dei risultati

A meno di clamorose novità, Donald Trump ha perso la rielezione alla presidenza degli Stati Uniti; tuttavia egli sta ancora combattendo la sua ultima battaglia chiedendo il riconteggio dei voti in alcuni stati e, in altri, denunziando la violazione delle regole elettorali che prevedono che le schede votate per posta pervenissero entro e non oltre il 3 novembre. Mentre la prima richiesta potrebbe essere accolta facilmente dalle corti statali, la seconda sarà sicuramente respinta dal momento che, proprio in quegli stati dove tale fenomeno si è verificato, erano state le stesse corti a decidere che le schede venissero accettate e contate anche se pervenute oltre il termine: una decisione piuttosto discutibile. Naturalmente sarà sempre possibile il ricorso alla Supreme Court e le cose potrebbero andare avanti almeno fino a dicembre: non credo però che vi siano molte chances per il ricorrente. I sospetti di brogli elettorali sono sempre difficili da provare: per esempio, in Italia ancora aleggia quello sul referendum del 2 giugno 1946; ma, in effetti, le modalità del voto postale negli Stati Uniti – che solo recentemente è divenuto così massiccio mentre prima era riservato solo ai cittadini e ai militari all’estero che votavano in ambasciate, consolati, seggi militari e le schede venivano quindi spedite negli stati di residenza – sono assai discutibili e vi è qualche ragionevole dubbio sulla regolarità del voto visto che nessuno identifica i votanti né vigila sulla inviolabilità delle schede: in alcuni stati, mentre i voti espressi direttamente nei seggi elettorali avevano dato a Trump un largo vantaggio, questo è stato annullato giusto dai voti arrivati a quintalate per posta e conteggiati dopo il 3 novembre: «a pensar male si fa peccato …” Ma già si leva forte, specialmente tra i radical chic nostrani, l’accusa contro Trump di voler impedire il pieno svolgimento del processo democratico; molti, dimenticando che si tratta di una procedura prevista dalla legge e dalla costituzione proprio a salvaguardia della democrazia, gridano allo scandalo e all’attentato alla democrazia per il fatto che egli si sia rivolto alle corti giudiziarie per ottenere un controllo dei risultati, mentre gli stessi tacquero del tutto, anzi parteciparono al linciaggio, durato qualche anno, quando quattro anni fa si tentò di delegittimare, anche con indagini poliziesche, la vittoria di Trump attribuendola a limacciosi complotti russi.

Comunque, anche se il suo ricorso fosse infondato, Trump ha pieno diritto a una validazione dei risultati. Per rassicurarci sul corretto andamento del conteggio delle schede, francamente non basta che sia il Sig. Mark Zuckenberg (il miliardario padrone di ‘Facebook’) ad assicurare che «l’esito delle elezioni è ora chiaro: le elezioni sono state fondamentalmente oneste: Joe Biden sarà il nostro prossimo presidente». Preferiamo che a dirlo sia la Supreme Court e ci chiediamo se, per quel paese che è stato la culla della democrazia, non sia veramente utile, anzi necessario, ricercare un qualche correttivo di quelle procedure del voto postale che fanno perdere al fatto elettorale la sua caratteristica di ‘comizio’ e mettono in crisi il principio fondamentale che ci hanno insegnato gli americani – one man, one vote – facendo perdere al voto il suo carattere personale e di segretezza. Guardando agli ultimi quattro anni, dobbiamo ammettere che la sconfitta di Trump è stata anche il risultato di un massacro mediatico senza precedenti: Trump è stato ridicolizzato – il suo boccolo biondo è stato preso a simbolo di volgarità delle sue politiche – e accusato di tutte le nefandezze, compresi la sua predilezione per la ‘idrossiclorochina’ come terapia del covid e lo spregiudicato rifiuto di usare la ‘mascherina’; ma nessuno ha detto dei colossali investimenti federali per la ricerca del vaccino e degli anticorpi monoclonali per la prevenzione e la cura del covid. Alcune emittenti televisive americane e anche ‘Facebook’ lo dicono ‘furibondo’ per la sconfitta ma, nel contempo, censurano le denunce dei presunti brogli elettorali che Trump va facendo. Paolo Mieli – pure se ha definito tale censura «‘corretta’ sul piano deontologico» perché, a su dire, avrebbe disinnescato un congegno incendiario – ha avuto l’onestà intellettuale di darci, sul ‘Corriere della Sera’, l’inventario «di piccoli e grandi misfatti commessi in campo antitrumpiano», una sorta di ‘maccartismo di sinistra’ che ha colpito chiunque non fosse allineato, ma anche meno allineato, con il ‘main stream’ giornalistico antitrumpiano.

Comunque vadano le cose sul piano giudiziario – cioè anche se il ricorso di Trump non sarà accolto – possiamo dire che il risultato elettorale, negativo per la persona di Trump, non ha segnato però la sconfitta delle sue politiche che non sono affatto liquidabili spregiativamente come ‘populiste’ e ‘nazionaliste’. E ciò non tanto perché il numero di voti da lui ottenuti segnala l’imponenza, non soltanto numerica, della base elettorale su cui egli poggia né perché il Partito Repubblicano ha guadagnato seggi nella House of Representatives e in Senato ha ottenuto finora la parità dei seggi e, se vincerà il ballottaggio in Georgia, anche la maggioranza – fatto che, per prima cosa, potrebbe evitare il grave e scandaloso vulnus che i ‘progressisti’ democratici intendono arrecare alla Costituzione aumentando il numero dei giudici della Supreme Court allo scopo di neutralizzarne l’attuale composizione – ma perché, più semplicemente, il suo successore non potrà abbandonare quelle politiche (così come lo stesso Clinton non abbandonò quelle di Reagan) se non al prezzo di un tracollo della potenza economica e politica degli Stati Uniti. Del resto, se Joe Biden ha vinto prima le primarie e, dopo, la presidenza perché non è Donald Trump, egli però ha condotto una campagna elettorale molto astuta, mimetica: il suo programma politico è stato modulato sulla falsariga di quello trumpiano con riguardo alla politica economica, fiscale e salariale: paga minima oraria a 15 dollari; ’penali’ molto severe alle aziende che decidano di ‘delocalizzare’ i propri stabilimenti di produzione; congelamento del Medicare for all, che fonda un servizio sanitario nazionale, perno dell’Obamacare.

Ciò che lo differenzia dal presidente uscente – a parte la questione del covid, sulla quale Biden vorrebbe segnare una discontinuità che francamente è abbastanza impercettibile, tranne che sull’uso della mascherina, visto che, come Trump, promette la stessa cosa sulla disponibilità del vaccino per tutti e subito – è l’innalzamento dell’aliquota fiscale dal 21 al 28% per i redditi personali e societari superiori ai 400 mila dollari, il ritorno ai trattati di libero scambio promossi dall’amministrazione Obama, tra cui quello con la Cina. e, infine, la politica climatica: Biden infatti vorrebbe aderire di nuovo all’Accordo di Parigi Vedremo se potrà farlo e con quali conseguenze per l’economia americana in assenza di analoghi impegni – se non puramente teorici e incontrollabili – per esempio della Cina e dell’India. Quanto alla politica estera, il multilateralismo obamiano sbandierato da Biden potrebbe ricacciare gli Stati Uniti verso un depotenziamento a favore delle potenze emergenti. E ciò vale anche per il rapporto euro-atlantico: se è vero che Trump, tentando di ristrutturare il rapporto con l’Europa (NATO e UE) sulla base della condivisione della strategia globale e dei costi, ha dato l’impressione di volere indebolirlo, è pure vero che, non da ora, gli Stati Uniti si trovano di fronte al muro di gomma opposto da Germania e Francia, più interessate a stabilire un’alternativa all’atlantismo e a perseguire un proprio sogno egemonico in Europa e, per i propri interessi, soprattutto costruendo un rapporto autonomo con Cina, Russia, Medio Oriente.

Si dice anche che Biden sarebbe contrario alla Brexit ma credo che, stando così le cose nella UE, egli farebbe un errore a indebolire la Gran Bretagna – migliore alleata degli Stati Uniti – nella sua trattativa per l’uscita dall’Unione. Trump aveva inoltre condizionato il ritiro americano dall’Afghanistan al contemporaneo rafforzamento complessivo della posizione di Israele stabilendo nuovi rapporti di questo paese con i suoi vicini arabi e isolando l’Iran: già in Israele si teme che invece Biden possa seguire una vecchia, e pericolosa, falsariga obamiana di pratica accettazione (con l’accordo JCPOA) di uno sviluppo del potenziale nucleare iraniano mentre pendono ancora le gravi minacce del regime komeinista contro Israele, della istituzione di uno stato palestinese anche a costo di limitare Israele e di revisione delle tradizionali alleanze americane in quell’area. Infine, sulla politica migratoria, Biden dovrà stare molto attento e, se non vuole perdere tra due anni le elezioni di ‘midterm’, forse dovrà essere pragmatico quanto lo fu Obama che, da senatore, votò insieme a Hillary Clinton e ad altri 25 senatori democratici il ‘Secure Fence Act’ del 2006 – che prevedeva il proseguimento della costruzione di un muro al confine messicano per il controllo dell’immigrazione clandestina e del contrabbando di droga – e, da presidente, non abbatté il muro che già Bill Clinton aveva cominciato ad innalzare nel 1994 e che Trump non è riuscito a portare a termine per la forte, pregiudiziale e demagogica opposizione dei democratici.

L’attacco alla Supreme Court, minacciato dai democratici dopo la nomina della Coney Barrett come ‘associated justice’, sebbene sia in sé molto più pericoloso di quanto non sia il ricorso di Trump alle corti per ottenere il riconteggio dei voti, è solo il sintomo più evidente di una strategia più complessa – espressa dal combinato-disposto Obama-Harrris-Sanders-LBGTQ (lesbiche, bisessuali, gay, transgender, queer) – mirante alla revisione dei fondamenti delle istituzioni politiche e della cultura propria degli Stati Uniti, di cui Biden è fin qui un semplice portavoce ed esecutore. In America oggi è in giuoco molto di più delle stravaganze e degli errori comportamentali di Trump. È in giuoco la tradizione della democrazia americana ma non a causa dei ricorsi giudiziari di Trump o delle sue nomine alla Supreme Court bensì per ciò che succede nella società americana e in uno dei suoi pilastri politici qual è il Partito Democratico. È in corso, infatti, una mutazione pilotata da frange radicali di vario genere, specialmente da quelle che si valgono dei ‘mob’ e dei ‘riot’ e che non sono solo quelle dei ‘Proud boys’ o dei ‘Patriot Prayer’, destrorsi, ma anche quelle degli ‘Antifa’, ‘Stand up America’ e ‘Black lives matter’– molto corteggiati da Biden – scesi in campo, con violenze diffuse, accusando Trump di tollerare le violenze della polizia contro i ‘cittadini neri’ però senza dire che la polizia dipende dalle singole città e dagli stati e non dal governo federale e che alcune delle città e degli stati, dove si sono avuti quegli intollerabili e delittuosi comportamenti di singoli poliziotti che hanno scatenato la protesta, sono governati dai democratici. Non vorrei che si fosse vicini all’inveramento della profezia fatta da Tocqueville quando ad abitare gli Stati Uniti erano – oltre agl’indiani – solo i bianchi e i neri africani ma ancora oggi valida nell’America plurietnica e multiculturale: quella dello scontro finale come surrogato della lotta di classe e come fine delle istituzioni repubblicane d’America.

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