Il 23 febbraio del 1970 i carri armati M4 Sherman dell’esercito italiano, unitamente ai mezzi blindati M113 dei carabinieri, spazzarono via sotto i cingolati l’ultima barricata della “Repubblica di Sbarre” decretando di fatto la fine della “Rivolta di Reggio Calabria”
di Giuseppe Agliano, già consigliere e assessore comunale – Il 23 febbraio del 1970 i carri armati M4 Sherman dell’esercito italiano, unitamente ai mezzi blindati M113 dei carabinieri, spazzarono via sotto i cingolati l’ultima barricata della “Repubblica di Sbarre” e, con essa, gli aneliti di ribellione di tutto il Popolo reggino, decretando di fatto la fine della “Rivolta di Reggio Calabria”. I carri armati arrivarono in città la settimana prima, invocati a gran voce da tutta la sinistra parlamentare, preceduti da mesi di guerriglia urbana che non accennava a placarsi, che causò devastazioni, lutti, sangue, arresti, e da roboanti annunci e consapevoli bluff da parte del governo centrale che prometteva migliaia di posti di lavoro. Lo Stato, per avere la meglio su dei civili delusi e arrabbiati, che si contrapposero ai moschetti ed ai carri armati tirando pietre a mani nude o, al massimo, lanciando rudimentali bombe incendiarie preparate con benzina dentro le bottiglie delle bibite, dovette optare, prima ed unica volta nell’Italia repubblicana, per la soluzione militare. La Rivolta di Reggio rappresenta il più vasto moto popolare della storia contemporanea occidentale, la prima Rivolta ”identitaria” d’Europa. Tutto ebbe inizio il 14 luglio 1970, in occasione del primo sciopero generale indetto per contestare la decisione del governo che indicava Catanzaro quale capoluogo della Calabria. La sottrazione del capoluogo fu, solo in apparenza, il motivo scatenante della Rivolta, le ragioni, infatti, non possono essere ridotte ad una semplice questione campanilistica o, come si disse, di “pennacchio”. Ciò che la città rivendicava era considerato un diritto inalienabile, che derivava da una storia millenaria, consapevole che il rischio era quello di perdere l’ultimo treno in direzione dello sviluppo. La ribellione dei reggini non fu solo un’esplosione di furia politica, ma prima di tutto un rigurgito di disagio sociale, con un Popolo che sentiva forte la sensazione di essere stato preso in giro per l’ennesima volta dai governanti, che ora le voleva pure scippare il titolo di capoluogo di regione, assecondando la “spartizione” della Calabria decisa nel corso di una cena in un ristorante romano, dai maggiorenti politici del tempo che, costituendo l’asse cosentino-catanzarese, esclusero Reggio da ogni possibilità di rivendicazione.
Al grido di dolore di una comunità intera la risposta dello Stato non fu all’altezza e si misurò solo sul piano repressivo e sulle vaghe promesse. Per contrastare i manifestanti, fu fatto confluire un numero impressionante di forze dell’ordine, interi reparti di poliziotti, carabinieri e soldati; diecimila uomini prevalentemente provenienti volutamente da regioni del nord, con scarsa conoscenza del tessuto sociale locale. Tutti elementi che innalzarono la tensione fino a sfiorare scenari di guerra. L’ingresso, il 18 febbraio, nel rione di S. Caterina dei mezzi blindati del battaglione mobile dei carabinieri e dei carri armati dell’esercito, se da una parte fiaccarono la resistenza e il morale dei rivoltosi, dall’altra compromisero per lungo tempo la fiducia dei cittadini nei confronti dell’autorità costituita. Il contentino del famigerato “Pacchetto Colombo” si rivelò, come previsto, un “grande pacco” per i reggini e gli unici benefici apportati (degli oltre 10 mila posti di lavoro promessi fra Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, iniziative in campo turistico dell’EFIM e la Liquilchimica di Saline Joniche) furono il potenziamento di qualche centinaio di unità alle O.ME.CA. di Torrelupo e la concessione della sede del Consiglio regionale.
Alla luce di quanto emerso nel corso di questi 50 anni, in definitiva, qualsiasi lettura si voglia dare alla Rivolta, non può venire meno la dimensione popolare della protesta. In piazza, per le strade e tra le barricate ci furono uomini e donne, giovani ed anziani; proprietari terrieri e braccianti; studenti, operai ed impiegati; classi abbienti e meno; gente di diverso strato sociale che lottò compatta per rivendicare un diritto, per denunciare un sopruso, per gridare il proprio diritto al futuro. Una straordinaria esperienza mai più ripetuta in alcun paese delle democrazie occidentali; l’esperienza di un Popolo che non si arrese, che non si rassegnò, ma che lottò per la giustizia sociale e per il proprio futuro, e che per questo pagò un prezzo altissimo. Il bilancio fu drammatico: 5 morti, centinaia di feriti e mutilati, migliaia di arrestati, danni incalcolabili e, soprattutto, la condanna per Reggio all’isolamento per diversi decenni. Di tutto ciò, oggi, rimane la consapevolezza che ci fu un periodo in cui la Comunità reggina, rifuggendo sentimenti di piaggeria e rassegnazione, scese in piazza e reagì, seppur con violenza, alle ingiustizie e ai torti subiti stringendosi e combattendo come un sol Uomo, intorno a Ciccio Franco, indiscusso leader, massimo rappresentante e profondo interprete di quella tragica, ma nel contempo esaltante, pagina di storia. Rimane, però, anche il rimpianto che da 50 anni a questa parte i reggini non abbiano più avuto la forza, o il coraggio, di rialzare la testa e combattere ancora (quantomeno con le “armi” che la democrazia concede) per i propri diritti e per il proprio futuro.