Scilla: 90 anni fa furono premiati con medaglia al valore due giovani scillesi che salvarono i marinai del grosso veliero “Vesuvio”

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Scilla: 90 anni fa furono premiati con medaglia al valore due baldi giovani scillesi che salvarono i marinai del grosso veliero “Vesuvio” naufragato sugli scogli del “mostro”

Il naufragio del 18 Gennaio 1931 del grosso veliero “Vesuvio” fu uno dei più gravi di Scilla dell’ultimo secolo. Tutto l’equipaggio a causa del mare terribilmente tempestoso si era posto su di una scialuppa, abbandonando il veliero ormai fuori controllo, dopo aver investito un enorme scoglio posizionato davanti al Palazzo Giordano a Chianalea, il rione dei pescatori. L’intera ciurma del Vesuvio fu salvata da Pietro Matrà e Giuseppe Romano che per aver dato lustro e decoro alla marineria italiana, furono insigniti il 23 Febbraio del 1931 con una medaglia di “Marina al valore” e non “medaglia d’oro”, come i due ardimentosi giovani scillesi meritavano, poiché non erano iscritti al Partito Fascista . La cerimonia pubblica in onore dei due coraggiosi scillesi, si svolse a Piazza Matrice, dove intervennero tutte le autorità del paese al fine di premiare con un’azione di merito, l’atto di coraggio volto a salvare vite umane in mare. Infatti i due baldi giovani scillesi salvarono ad uno a uno tutti i 12 marinai, legandosi con una corda con abilità al di sopra della norma. Questa nave conteneva grano che venne disperso lungo la costa e rappresentò una gradito omaggio agli scillesi che in un periodo di forte povertà, ottennero la farina dal prezioso cereale. Tutto il paese infatti per diversi mesi mangiò pasta, pane e dolci derivante da questa vera e propria manna dal cielo. Le difficoltà e i pericoli, in cui incorrevano le fragili imbarcazioni attraversanti lo Stretto di Messina, esaltarono nel tempo la fantasia degli antichi e dato origine a mitiche leggende. Nei canti omerici è descritto un “mostro cinto di latranti cani, albergante in oscuro speco”, di nome Scilla che rappresentava i pericoli della “pietrosa”, cioè la scogliera sotto la rocca del Castello. Il contrapposto Capo Peloro dalla parte siciliana verso il continente, delimita nettamente l’ingresso dello Stretto di Messina, “alle sue falde assorbe la temuta Cariddi il negro mare” e Virgilio, infatti, si ispira ancora ai miti omerici nel descrivere le turbolenze marine del posto. Le narrazioni dei pericoli nautici dovettero aver assunto tali proporzioni, da indurre il poeta a consigliare di evitare la traversata dello Stretto, “meglio é con largo indugio e lunga volta girar Pachino e la Tricacria tutta”.

Ma nella nota terzina dantesca “come fa l’onda là sopra Cariddi che si frange con quella in cui s’intoppa cosi convien che qui la gente riddi”, invece, la poesia abbandona l’aspetto mitologico e dà una visione reale dei turbolenti movimenti marini che caratterizzano le acque dello Stretto di Messina, focalizzando l’attenzione ai suoi continui ribollimenti, alle sue repentine agitazioni e alle sue alternate fasi delle correnti opposte. L’acqua presenta una specie di bulicame, come se innumerevoli “bolle” sottomarine, distese sopra fasce trasversali, emergessero in superficie. Sui margini di queste zone, larghe macchie, di aspetto oleoso, indicano la presenza di vortici possenti, chiamati “refoli”, i quali danno improvvisi sbandamenti anche a grosse navi che ne rasentassero le parti esterne. Cariddi personifica i refoli e le agitazioni del mare che dominano Punta Peloro, dove pare che in realtà il mare sia assorbito e rigettato con immane violenza. La leggenda contrappone Scilla, colei che “dilania” a Cariddi colui che “risucchia” e la loro collaborazione creò infatti il “mito” basato sulla pericolosità del posto. I grandi studi settecenteschi dello scienziato scillese, Padre Antonio Minasi che indicò addirittura “il percorso onde evitarsi la strage dei navigli”, produssero successivamente fervide discussioni politiche su questa dolorosa questione. La possibilità di assicurare alle imbarcazioni una protezione nautica con la costruzione dei porti nella parte calabrese e precisamente a Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Scilla, fu la conseguenza dei numerosi naufragi violenti che si susseguirono nella zona. A Scilla infatti, nel 1848 un bastimento genovese, carico di caffé e nel 1886 una nave scuola militare austriaca andarono a fracassarsi contro gli scogli sotto la rupe. Dopo la costruzione del porto a Scilla, che costò senza motivo l’abbattimento dei maestosi faraglioni, fu posto sopra il castello “Ruffo” il faro di Scilla che fu istallato nel 1913, ma quel giorno di 90 anni fa servì poco al veliero Vesuvio.

Enrico Pescatore

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