I partiti italiani nel Melting Pot

StrettoWeb

Può apparire singolare il fatto che forze politiche importanti come il M5S, FI, e, ora, anche il PD abbiano come capi persone non elette in Parlamento – Grillo/Conte, Berlusconi, Letta – che non prenderanno mai la parola nelle Camere dove, per Costituzione, si decide il nostro destino politico; e può apparire ancora più singolare l’altra particolarità della storia politica dell’Italia democratica, cioè che dal 1993 a oggi abbiamo avuto capi del governo non eletti in Parlamento: Ciampi, Dini, Monti, Renzi, Conte, Draghi.

Ciò, tuttavia, non deve meravigliare poiché è la conferma della vecchia legge michelsiana della natura oligarchica dei partiti politici e della classe politica: siamo legittimati a pensare che c’è del marcio in Danimarca’!

Lasciando Palazzo Chigi, l’autonominatosi avvocato del popolo, Conte, ha promesso che non ci avrebbe lasciato privi del suo ‘alto’ patrocinio: un patrocinio appunto da avvocato che sa cambiare le carte in tavola, etc..

Il suo futuro è tutto da scrivere; l’ormai ex premier ha detto che «È davvero necessario che ognuno di noi partecipi attivamente alla vita politica del nostro Paese e si impegni, in particolare, a distinguere la (buona) Politica, quella con la P maiuscola, dalla cattiva politica … il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere». Insomma, il professore-avvocato non intende ritirarsi a vita privata e, da par suo cioè da uomo che può scegliere indifferentemente una di due opzioni contrastanti, si pone davanti a questo dilemma: un ruolo nel Movimento cinque stelle o la formazione di un partito proprio.

Il dilemma è stato risolto da Grillo, l’elevato, che, dopo averlo assolto da ogni colpa di governo, ha assunto Conte come capo politico disarcionando il direttorio a 5 appena messo a statuto dalla piattaforma Rousseau e accettando la condizione posta da Conte per farsi arruolare: mano libera, cioè ‘pieni poteri’, per rifondare il Movimento a sua immagine e somiglianza.

Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe Totò (la citazione del grande Principe non sembri blasfema visto che il Grillo comico non potrebbe lucidargli le scarpe); noi più modestamente diciamo: alla faccia della democrazia diretta!

Il professor Sabino Cassese – al contrario di Eugenio Scalfari che non ha esitato a dipingere Conte come un nuovo Cavour – ha detto che l’ex presidente del consiglio «è il padre di tre gemelli diversi. Conte è un unicum in Italia, ha firmato i decreti Salvini ed l’esatto contrario. Più che un premier è uno e trino. I 5 stelle? Finiranno col digerire anche quello che è, attualmente, il più grande panettone di maggioranza di governo mai pensato».

Come si è detto, Conte – personaggio che sembrava essere di pura invenzione e che invece, lungi dall’essere un ‘trovatello’ come lo definisce Vittorio Sgarbi, pare che venga da lontano e goda della copertura di qualche tonaca e di qualche grembiule – nei mesi scorsi si è trovato di fronte a un dilemma, cioè la scelta tra il M5S e la fondazione di un partito proprio, che si sarebbe potuto chiamare Insieme: una scelta che, comunque, avrebbe cambiato solo l’ordine degli addendi perché, entrando nel M5S, Conte si tirerebbe dietro i possibili seguaci di quel partito, in gran parte quelli dei vari gruppi cattolici che si erano intruppati nel PD, donandoli a un Movimento rimaneggiato da una plastica facciale radicale.

Concepito più di un anno fa, con l’expertise autorevole del Professore Stefano Zamagni, cattolicissimo ex presidente dell’Agenzia per il Terzo settore, questo partito Insieme sarebbe «di ispirazione cristiana, autonomo e non confessionale che parta dal basso, di centro, autonomo dalla destra e dalla sinistra … capace di trovare una strada alternativa alla contrapposizione fallimentare tra liberismo e statalismo e che promuova una economia civile di mercato, in cui la famiglia sia soggetto, e non oggetto di mere elargizioni».

In realtà, il terzo settore rappresenta un potente gruppo di interessi economici e qualche milione di persone che li condividono: ma, se il terzo settore si trasforma in backstage o piedistallo di un partito politico, non c’è un problema per il terzo settore? Non si apre per esso un conflitto d’interessi tale da snaturarlo? E non c’è forse un problema anche per la democrazia?

Le qualità funamboliche di Conte lo rendono capace di pistolotti che, ripetendo le stesse parole di Zamagni da dietro la ‘bancarella’ di piazza Colonna, annunciano il suo programma: «Sarà l’economia civile a dare un grande contributo alla rinascita del Paese. È un tempo di rinnovamento: non possiamo tornare alla normalità. La rigenerazione dell’economia è un fil rouge di un processo che mira a collocare al centro il cittadino e la persona umana».

Rinnovamento, economia sociale, persona umana, normalità: belle parole che, dette da Conte, sembrano del tutto vuote perché quello che abbiamo visto fin qui, nei suoi due governi, non è altro che statalismo, anti-autonomismo, assistenzialismo e debito pubblico. E nessuno spacci questa presunta rinascita di un partito cattolico mettendola sotto l’usbergo di Don Sturzo che, invece, era antistatalista, autonomista e aveva un’idea dell’economia sociale sottratta ai beneplaciti dall’alto.

Non è un caso dunque che la rinascita, si fa per dire, di un partito formato da cattolici ma non dei cattolici – mentre il papato dà indirizzi politici assai discutibili tanto che anche il PD vuole seguirli come nuove vie della sinistra – sia affidata a un accrocchio cattolico-terzosettorista.

Anche se, alla lunga, il M5S avrà cambiato completamente pelle (ma che gliene importa all’elevato, il cui unico scopo è quello di fare battute comiche?),

dobbiamo ammettere però che Grillo non ne sbaglia una: la cooptazione dell’avvocato dopo che si è sparsa la notizia di sondaggi che attribuirebbero un buon 20% ai 5S sotto la leadership di Conte dei voti così superando un PD crollato al 14% – e siamo solo agl’inizi – ha messo in crisi il PD.

Zingaretti, seguendo i consigli del suo guru Bettini, aveva inchiodato il PD al dilemma o ‘Conte o morte’; ora, pur negando di averlo mai fatto, si è dimesso da segretario accusando il suo partito di essere impegnato in una delle tante battaglie della lunga guerra ‘per il potere’ intrapresa fin dalla sua nascita, frutto di un connubio catto-comunista.

Zingaretti afferma che le sue dimissioni vogliono essere un atto d’amore verso il partito nella speranza di scuoterlo, una specie di respirazione bocca a bocca. Non per scoraggiarlo, lo informiamo che Massimo Cacciari – certamente non sospettabile di pregiudizio sfavorevole nei confronti della sinistra – ha confermato le preoccupazioni per le quali egli si è dimesso: «il PD è da tempo non un insieme ma un mucchio di forze eterogenee il cui denominatore comune è la strenua ‘volontà di governo’, camuffata sotto il velame delle parole mantra ‘stabilità’ e ‘responsabilità’».

Del che ci sono prove schiaccianti. Il PD è al governo ininterrottamente dal 2011, senza vittorie elettorali tranne quella stentata del 2013, senza perseguire un proprio programma ma intestandosi battaglie ideologiche(anti-berlusconismo, anti-sovranismo) tanto generiche quanto non in sintonia con i problemi del paese. Per tenerci solo al passato recente, ricorderemo come, nell’agosto del 2019, questa gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria sferrò quella che potremmo chiamare la sua ‘undicesima battaglia dell’Isonzo’, quella appunto d’agosto, per rientrare nel governo sottoscrivendo un inusitato accordo con i 5S: un’operazione di puro trasformismo che poi ha così tanto infatuato il gruppo dirigente PDino da fargli perseguire il progetto dell’annessione di Conte e, possibilmente, di quell’elettorato pentastellato che potrebbe seguirlo; un progetto che ha permesso a un Casalino qualsiasi di dire oggi «noi del Movimento abbiamo anche attaccato il PD, che forse merita di essere attaccato, ma alcune persone sono straordinarie, come Zingaretti e Franceschini, e poi ci sono alcuni cancri … elementi devastanti che riescono a distruggere anche il bello del PD. Bisognerebbe estirpare questi cancri».

Insomma, Casalino salva soltanto gli spasimanti dei 5S; a sua volta, la ‘sardina’ Santori – che credevamo già sotto sale – dichiara altezzosamente: «Le dimissioni [di Zingaretti] sono state un grido di aiuto. Noi abbiamo risposto. Il PD ha un marchio tossico». Forse il pensatore politico riccioluto voleva aiutare a ‘estirpare i cancri’ e rinverdire la ‘piazza grande’ – incolpevole contributo alla diffusione del virus con il giro per le piazze d’Italia fatto dal ‘banco di sardine’ dal 2019 al febbraio 2020 e un’apparizione nel settembre 2020 – per ‘ricostruire’ la sinistra, sedicente ‘progressista’, con ‘adunate oceaniche’ di venerata memoria.

Dopo l’apparente vittoria della conquista del governo – che Zingaretti, Bettini e Franceschini, e tutti gli altri che oggi cercano qualche paravento dietro cui nascondersi, hanno sostenuto strenuamente fino ad elevare Conte a demiurgo della ‘sinistra’ e a non riconoscere i limiti, le colpe gravissime del governo Conte – è venuto per il PD il bagno di sangue del gennaio 2021 quando si mostrò disposto a tutto, anche a consegnare la democrazia al duo Lonardo-Mastella piuttosto che alle urne.

L’essersi affidato alla sommatoria di vari ‘responsabili’ parlamentari – i ‘costruttori’ messi in campo da qualcuno che gode d’ufficio della qualifica di ‘saggio’, ma che è meglio chiamare ‘raccogliticci uniti’, i fabbri del ‘trasformismo’ – non poteva portare che al fallimento di quel penoso tentativo di Conte, appoggiato dal PD usque ad sanguinem, e all’invenzione del governo d’emergenza con Draghi, dal quale il PD e i 5S, pur accettando FI, s’illudevano di poter tenere fuori soprattutto la Lega.

Poi c’è sempre Bettini che ora, perduto Conte e vedendo disperato il tentativo di annettersi l’elettorato 5S, non si straccia le vesti per le dimissioni di Zingaretti – da lui guidato e fuorviato in questa ricerca ossessiva dell’alleanza con i 5S – e, per superare la crisi apertasi nel PD, propone una soluzione geniale e un nuovo imperialismo partitico con un segretario di ‘sinistra’ per riprendersi LEU e Sinistra italiana e con il programma di ‘civilizzare il capitalismo globalizzato’. In bocca al lupo!

Anche in questa crisi il PD mostra dunque la corda perché dobbiamo rilevare che, dietro la guerra per il potere interno, nel partito vi era pure un forte dissenso contro la linea filo-5S: le dimissioni di Zingaretti sono venute sostanzialmente per sfuggire a questo dissenso.

Tappando il buco con la pezza del nuovo segretario, Letta, richiamato da Parigi dopo 7 anni: una chiamata unanime come unanime era stata la sua cacciata nel 2014 – che allora il PD motivò con l’immobilismo e le insufficienze del suo governo – un coro rumorosamente plaudente ha silenziato questo dissenso e i mugugni di molti: a quando la prossima resa dei conti?

In un impeto di modestia, nel suo discorso all’Assemblea del partito che lo ha eletto quasi all’unanimità, Letta, dicendo che al PD «non serve un nuovo segretario … serve un nuovo PD», ha fatto il paio con Zingaretti, che disse di vergognarsi del suo partito, e ha dato ragione a quanti hanno fin qui visto il PD come un partito inaffidabile. E, a dire il vero, non si capisce come egli intenda costruire questo partito ‘nuovo’ di togliattiana memoria.

Basterà, per una tale ‘ricostruzione’, che Letta sia andato il giorno prima alla sezione del Testaccio? Pare invece che anche in questa occasione il PD non abbia fatto altro che confermare la sua crisi di identità procedendo all’elezione di Letta. Senza prima avere messo ai voti la linea politica, senza un ‘Congresso’ chiarificatore (tuttavia a giustificare tutto ciò bisogna ricordare che il PD è anche l’erede di un partito che non ha avuto mai una sua Bad Godesberg), il PD ha messo il carro davanti ai buoi perseguendo soltanto nuovi equilibri (più avanzati?) di potere, raggiunti i quali si potrà pure fare un Congresso che li ratifichi, ma un congresso a tesi (filosofiche?) che ne metterà in mostra l’alta cultura politica (ci saranno pure le ‘sardine’?). Addio primarie!

Possiamo concludere che la simbiosi con i 5S e Grillo – che, da solo, decide il rinvio dei famosi ‘stati generali’ e nomina i ‘capi politici’ – fa effetto?

Letta ha fatto un discorso, pieno di buone intenzioni procedurali e vuoto di programmi sostanziali salvo la sparata sullo ius soli e sul voto ai sedicenni, accolto da un coro assembleare e giornalistico plaudente. Un discorso che, pur dicendo ‘qualcosa di sinistra’ (Delrio, commosso per così poco, dice di essere rimasto colpito «dalla solidità e forza» di un tale sermone), rivela piuttosto incapacità di vedere i veri nodi che stringono il nostro Paese e la non molto nascosta idea di mettere in crisi le larghe intese che sorreggono il governo Draghi, da lui definito governo del PD in modo da spingere Lega e FI a prenderne le distanze. Infatti è in corso un’offensiva contro la Lega per costringerla a uscire dal governo.

Letta ora vuole risuscitare la politica delle ‘coalizioni’ candidando il PD alla leadership: ‘vocazione maggioritaria’ o vocazione egemonica?

Egli parlerà «con Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli, Fratoianni» – già, però, c’è l’alt di Calenda che ha ricordato come tutti questi abbiano una visione diversa della società – e pianterà il nuovo Ulivo sui 5S – pare che Letta abbia già dato il primo colpo di zappa telefonando a Conte ricevendone l’impegno per un confronto sui comuni obiettivi mentre il buon Fico ne ha elogiato l’accenno al rispetto dei diritti umani in Egitto – una bella svolta preparata dai suoi studi parigini: infatti, dopo avere aborrito i 5S e, soprattutto, l’alleanza con essi, Letta l’ha teorizzata come via per conquistarne l’elettorato (Zingaretti gli ha dato un buon viatico, la nuova giunta laziale con i 5S che, nel non lontano 2018, lo avevano combattuto).

Comunque, se Ulivo deve essere, Letta ricordi che il vecchio Ulivo vinse con il ‘mattarellum’ e rinunci alla deriva proporzionalista promossa dal PD: l’avere abbandonato quella parvenza di legge elettorale semi-maggioritaria già in sé un ircocervo, per passare ai vari ‘porcellum’, ‘rosatellum’ ha causato la confusa situazione di oggi e la spinte per un ritorno al proporzionale. Forse però, da quanto non detto da Draghi nel suo discorso davanti alle Camere e per il nuovo Ulivo che dovrebbe nascere, possiamo sperare che non si compia il misfatto di quel ritorno: al contrario del proporzionale, ’mattarellum’, ‘porcellum’ e ‘rosatellum’, per quanto pasticciati, salvano la possibilità dell’alternanza, sale della democrazia.

Da questo punto di vista dobbiamo pure noi compiacerci del fatto che Letta abbia introiettato questa necessità esortando il PD a imparare che le elezioni si possono pure perdere! Lo ha esortato a non andare al governo per fare da ‘protezione civile’, per impedire che gli altri portino l’Italia fuori dall’Europa (a questo ci penserà lui). Il professore di ‘Science Po’ ha dato al suo partito la prima lezione sulla riforma costituzionale che intende proporre contro il trasformismo; temo però che, parlando di corda in casa dell’impiccato, potrebbe fare la fine dei 5S che si battevano per introdurre il vincolo di mandato e ne uscirono ‘suonati’.

La Lega, a sua volta, dovrà rimpiangere l’accordo verticistico fatto nel 2018 con i 5S accettando di rompere la coalizione di centro-destra. Non doveva farlo; non doveva sottoscrivere il cosiddetto e ridicolo contratto di governo: sarebbe stata così di altri la responsabilità di non fare ricorso a nuove elezioni; allora non sarebbero state valide le scuse che, poi, sono state accampate per non farlo, cioè i ‘pieni poteri’ di Salvini prima e, ora, la pandemia.

Ora il centro-destra – una parte del quale appoggia il governo Draghi e un’altra è all’opposizione, come nella fase precedente la Lega era al governo con i 5S mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia erano all’opposizione – dovrà pure ritrovare unità politica e una leadership operando una difficile sintesi tra un Berlusconi al tramonto con molti pretendenti alla successione, una Meloni rampante e un Salvini delegittimato da anni di attacchi politici e ‘giudiziari’.

Ma anche se ci riuscisse e a legge elettorale ora vigente, il centro-destra potrebbe non conquistare la maggioranza a causa della corsa al centro di buona parte delle forze politiche, da Azione a Più Europa a Italia Viva con in testa il PD che, dimentico della sua origine catto-comunista, pretende al ruolo di partito riformista-liberale, e i 5S, che ora si definiscono moderati e liberali e non più rousseauviani.

Un pasticcio poco appetibile, da grande calderone.

Condividi