I fenomeni tra “Scilla e Cariddi” affascinarono persino Dante Alighieri. Proprio oggi lo ricordiamo nel giorno del dantedì
Le difficoltà e i pericoli, in cui incorrevano le fragili imbarcazioni attraversanti lo Stretto di Messina, esaltarono nel tempo la fantasia degli antichi e dato origine a mitiche leggende. Nei canti omerici è descritto un “mostro cinto di latranti cani, albergante in oscuro speco”, di nome Scilla che rappresentava i pericoli della “pietrosa”, cioè la scogliera sotto la rocca del Castello. Il contrapposto Capo Peloro dalla parte siciliana verso il continente, delimita nettamente l’ingresso dello Stretto di Messina, “alle sue falde assorbe la temuta Cariddi il negro mare” e Virgilio, infatti, si ispira ancora ai miti omerici nel descrivere le turbolenze marine del posto. Le narrazioni dei pericoli nautici dovettero aver assunto tali proporzioni, da indurre il poeta a consigliare di evitare la traversata dello Stretto, “meglio è con largo indugio e lunga volta girar Pachino e la Tricacria tutta”. Ma nella nota terzina dantesca “come fa l’onda là sopra Cariddi che si frange con quella in cui s’intoppa cosi convien che qui la gente riddi”, invece, la poesia abbandona l’aspetto mitologico e dà una visione reale dei turbolenti movimenti marini che caratterizzano le acque dello Stretto di Messina, focalizzando l’attenzione ai suoi continui ribollimenti, alle sue repentine agitazioni e alle sue alternate fasi delle correnti opposte. L’acqua presenta una specie di bulicame, come se innumerevoli “bolle” sottomarine, distese sopra fasce trasversali, emergessero in superficie. Sui margini di queste zone, larghe macchie, di aspetto oleoso, indicano la presenza di vortici possenti, chiamati “refoli”, i quali danno improvvisi sbandamenti anche a grosse navi che ne rasentassero le parti esterne. Cariddi personifica i refoli e le agitazioni del mare che dominano Punta Peloro, dove pare che in realtà il mare sia assorbito e rigettato con immane violenza.
Enrico Pescatore