La storia di Franco Scoglio, il ‘Professore’ del pallone: da Messina a Genova, il no a Gheddafi e quella clamorosa profezia sulla sua morte
“Lei, laggiù in fondo, mi deve ascoltare. Altrimenti io sto qui a parlare ad minchiam”. Il latino che si mischia con il siciliano urlato contro un giornalista disattento. La lingua che narra le gesta degli imperatori e quella colorita del popolo, metà ‘Professore’ metà “allenatore di strada, un po’ prostituta, che si arrangia”. Le sfumature della personalità di Franco Scoglio non possono essere identificate nello spettro dei colori che oggi è noto all’occhio dell’uomo.
Nato a Lipari con la passione del pallone, non una passione qualsiasi, ma quella che viene dal Meridione con tutti i pregi e i difetti del caso. Testa dura, caratteraccio, ma in fondo un buono… se avevi la fortuna di essere dalla sua parte. “Tutte le mattine devo alzarmi odiando qualcuno”, tanto buono non si direbbe. Mai una parola ‘ad minchiam’, dialettica universitaria (laureato in Pedagogia), da ascoltare in silenzio. Un maestro: insegnò per davvero nelle scuole del Sud Italia, ma anche nei campi di calcio. Allenatore del popolo, amato per la sua genuinità e apprezzato per il suo intelletto. Innumerevoli gli screzi con giornalisti, colleghi e avversari. Lo guardarono tutti con rispetto.
Il ‘Professore’: verticalizzazioni, rombo e tre palle
Potremmo spendere fiumi di parole per definire il perché del soprannome ‘Professore’, ma preferiamo affidarci ad una sua frase: “il mio calcio è fatto così: 47% di tecnica, 30% di condizione fisica, 23% di psicologia”. Tutto chiaro no? Per altro, il termine ‘professore’ lo riteneva un po’ snob, preferiva farsi chiamare maestro. Era un letterato del pallone, ma non un poeta: “io non faccio poesia, io verticalizzo”. La teoria è importante, ma è la pratica che conta. E lui da buon siciliano era un uomo decisamente pratico. Voleva il controllo della situazione sul rettangolo verde, gli avversari dovevano adattarsi, se ci riuscivano: “l’avversario non decide. Sono io che decido come deve giocare”. Aveva applicato una forma geometrica al calcio, lo schema a rombo. Il centrocampo, fulcro del gioco, si disponeva con i due centrali in linea ma non troppo stretti, un vertice basso (mediano) e un vertice alto (trequartista). Uno schema che si sviluppava in verticale, appunto: “io verticalizzo”. Il rapporto con i giocatori? L’opinione che aveva di loro è riassunta in una massima di quella ‘Critica della ragion calcistica’ che è stata la sua carriera. Parte tutto dalla palla, anzi meglio se ce n’è più di una: “le caratteristiche che devono avere i miei giocatori? Senz’altro necessitano di attributi tripallici. Quelli che hanno tre palle fanno il pressing. Quelli che ne hanno due giocano al calcio. Quelli che ne hanno una fanno le partite tra scapoli e ammogliati”.
La Serie B con il Messina, il no a Gheddafi
Il legame con Messina non fu soltanto geografico. Il professore insegnò calcio su entrambe le sponde dello Stretto, passando anche per Gioiese e Reggina in Calabria, ma è proprio a Messina che riuscì a consacrarsi. La città peloritana lo omaggia intitolandogli lo stadio cittadino in suo onore. Tre le esperienze con i giallorossi: 1974-1975, 1980-1981, 1984-1988. Alla guida di quelli che affettuosamente chiamava ‘Bastardi’, conquistò una straordinaria promozione in Serie B nel 1985: in quella squadra plasmò un certo Totò Schillaci (11 gol quell’anno) che poi fece sognare l’Italia intera in maglia azzurra della nazionale. A proposito di nazionali, Franco Scoglio non attraversò solo lo Stretto, ma navigò fino in Africa alla guida di Tunisia e Libia, con la Guinea come progetto futuro mai realizzato. Alla guida della Libia venne esonerato perché ebbe il coraggio di opporsi alle pressioni del dittatore Mu’ammar Gheddafi che avrebbe voluto il figlio titolare nella sua nazionale. “La verità è che con me il figlio di Gheddafi non ha mai giocato e non giocherà nemmeno un minuto. Non amo subire i ricatti di nessuno”, la perentoria risposta di Scoglio, rivoluzionario contro ogni regime, calcistico o politico che fosse.
Il legame con il Genoa e la profezia sulla sua stessa morte
Il mare era nel suo destino, già dal cognome, da quello della natale Sicilia a quello dell’amata Genova. Scoglio è stato la sintesi perfetta della “direzione ostinata e contraria” di De Andrè, un altro maestro che fra i Carruggi ha scritto pagine di storia. Il legame con il ‘Grifone’ è eterno, temporaneamente diviso per tre volte da logiche e tempistiche del pallone, altrettante ricucito nel tempo (1988-1990, 1993-1994, 2001-2002). Era il Genoa del presidente Spinelli, della Serie A conquistata e poi difesa, dei ‘Derby della Lanterna’ contro una Sampdoria ricca di talento. Fu protagonista di una clamorosa profezia: “morirò parlando del Genoa”. Accadde davvero. Il 3 ottobre 2005, mentre discuteva animatamente in uno studio tv con il presidente del Genoa Preziosi, venne colto da un improvviso arresto cardiaco. I soccorsi furono vani. “Presidente, quando si rivolge a me dica o ‘dottore Scoglio’ o ‘professore Scoglio’, perché io la chiamo presidente”, disse nell’acceso scambio di opinioni in tv rivolgendosi a Preziosi, che poi rispose: “io la chiamo Scoglio e mi va bene così”. Dunque la replica: “e io la chiamo Preziosi”. Poi lo stacco pubblicitario. Volse la testa all’indietro, quasi stufo di ritrovarsi a discutere un’altra volta con chi non voleva ascoltare. Chiuse gli occhi per l’ultima volta.