Bene l’accreditamento dell’Hospice, adesso sappiamo che moriremo in pace. Partorire, invece, è un’impresa sempre più difficile

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La sanità reggina tra l’eccellenza dell’Hospice per le cure palliative ai malati terminali e l’assenza di alcun tipo di clinica che supporti l’ospedale per i parti: il paradosso della città in cui si muore coccolati, ma il parto diventa una giungla

Reggio Calabria ha celebrato ieri un momento storico per la sanità cittadina: l’accreditamento dell’Hospice “Via delle Stelle” come struttura sanitaria convenzionata con la Regione Calabria è senza ombra di dubbio un grande successo di quella buona politica che opera al servizio del territorio. L’accreditamento era atteso da molti anni, finalmente è arrivato grazie alla sensibilità della Regione Calabria e in modo particolare all’intermediazione dell’on. Francesco Cannizzaro, il deputato reggino che si è battuto per raggiungere questo risultato mentre da troppo tempo le principali istituzioni cittadine rimanevano inermi, senza muovere un dito, e per giunta speculavano sulla situazione della struttura alimentando polemiche volte esclusivamente ad ottenere visibilità. Le parole che ieri il Presidente della Fondazione ‘Via delle Stelle’ prof. Vincenzo Trapani Lombardo ha voluto esprimere pubblicamente sono piene di riconoscenza: “E’ la prima volta che un’Istituzione così importante si interessa all’Hospice con tale portata e cotanta attenzione. E non possiamo non tenere conto di questo come del fatto che l’Onorevole Cannizzaro ci ha letteralmente presi per mano, portandoci all’accreditamento. Non si sarebbe sicuramente arrivati a questo risultato senza la sua tenacia e la sua intercessione“. Una riconoscenza che è quella di tutta la città, che adesso può godersi con serenità la certezza di una struttura solida, seria, ultra professionale ed eccezionalmente umana per prestare le cure palliative rivolte ai malati terminali.

Foto di Salvatore Dato / StrettoWeb

Si tratta di un grande risultato di civiltà, ma non può bastare – da solo – a migliorare la qualità della vita di una città sempre più vecchia, triste e degradata. Di una città che ha come principale preoccupazione sanitaria quella di morire soffrendo il meno possibile.

La bella notizia dell’accreditamento dell’Hospice stona, purtroppo, con la situazione drammatica di altri settori della sanità che dovrebbero preoccupare e interessare in modo almeno altrettanto intenso, se non superiore, la cittadinanza e la classe dirigente. A meno che non vogliamo considerare irreversibile la morte della città, e quindi preoccuparci soltanto di morire senza dolore quando giungerà la nostra ora, dovremmo invece  ragionare su quali soluzioni offre la sanità reggina per il futuro, per la vita. E quindi per le nascite.

In una città in cui da anni l’unico dibattito sanitario è esclusivamente quello, a tratti psicofobico, sulla pandemia, e quello sulla struttura che presta le pur importantissime cure palliative ai malati terminali, sembra ormai accettato come normale che ci sia un unico punto nascite per un bacino di oltre 200 mila abitanti. Si tratta del reparto di Ostetricia e Ginecologia del GOM che è costretto a sopportare oltre 2.000 parti l’anno con tutte le limitazioni del caso (reparto sovra affollato, impossibilità per i papà di stare accanto alla moglie e al figlio appena nato, impossibilità di partorire con il proprio ginecologo di fiducia che ha seguito tutta la gravidanza e conosce le caratteristiche mediche e umane della partoriente e molto altro).

Reggio Calabria è la più grande città d’Italia ad avere un solo punto nascite, l’unica di queste dimensioni a non avere neanche una clinica convenzionata per i parti, ed è anche la Provincia con il più basso rapporto tra punti nascite e popolazione. Anche fuori Reggio, infatti, non ci sono in tutto il territorio provinciale cliniche in cui è possibile partorire: le donne di Reggio e provincia non hanno scelta, o il GOM o l’Ospedale di Polistena o quello di Locri. Tutti attrezzati nel modo migliore possibile, tutti gestiti in modo egregio, tutti con un numero di parti annui elevatissimo (oltre 2.000 a Reggio, quasi 1.000 ciascuno a Locri e Polistena). Ma è troppo poco in termini quantitativi. Basti pensare alla situazione di pochi anni fa: a Reggio c’erano, oltre al GOM, anche il Policlinico e Villa Aurora. In provincia c’era Villa Elisa a Cinquefrondi e fino al 2011 c’era anche l’Ospedale di Melito.

La direttiva del 2011 con cui il Ministero della Salute impose alle Regioni, su indicazione della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, di chiudere i punti nascita con meno di 500 parti l’anno (portò alla chiusura di Melito), era anche comprensibile e condivisibile. Ma la successiva e contestuale chiusura dei punti nascita di Villa Aurora, Villa Elisa e Policlinico nel 2016 non trova alcuna spiegazione nella legislazione nazionale e nei riferimenti scientifici. Non parliamo di strutture con numeri bassi. Anzi. La loro chiusura ha intasato gli unici tre ospedali che servono l’intera provincia, che conta 550.000 abitanti e in cui si verificano 4.000 nascite l’anno concentrate in tre sole strutture. In modo particolare al GOM di Reggio Calabria medici e infermieri sono costretti a fare i conti con una media di circa 6 parti al giorno, con tutte le gravi conseguenze del caso.

I disagi sono enormi sia per gli operatori sanitari, che per i cittadini. Da cinque anni. Nel silenzio assordante di una politica completamente indifferente. Quella stessa classe politica che invece dovrebbe pretendere la revisione del decreto 64 con cui l’allora commissario governativo Massimo Scura proprio nel 2016 ha ridisegnato la rete assistenziale. A Reggio servono nuovi punti nascita, servono cliniche convenzionate, servono soluzioni alternative per i cittadini, i neo-genitori e le partorienti. Servono strutture che diano respiro a medici e infermieri oberati da una mole di lavoro insostenibile.

Serve – in sostanza – che in questa città si possa anche nascere, e non solo morire.

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