Festa di Madonna, Falcomatà consegna il Cero Votivo: “alcune cose non dipendono dal Sindaco, ma chiedo scusa per gli errori commessi” [FOTO]

Falcomatà discorso duomo
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Festa di Madonna, Mons. Morrone nella sua Omelia ha ricordato i morti per gli incendi in Aspromonte

Si è svolta questa mattina la Celebrazione Eucaristica presieduta dall’Arcivescovo Metropolita di Reggio Calabria – Bova, con l’offerta del Cero votivo alla Madonna della Consolazione accompagnata dal discorso che il Sindaco Falcomatà ha letto integralmente di fronte la platea del Duomo. Il discorso integrale:

“Eccellenza reverendissima, Reverendo Capitolo Metropolitano,

porgo a voi e al Reverendo Clero di questa Chiesa reggina e bovese l’omaggio filiale della Civica Amministrazione. Saluto con animo colmo di gioia la presenza, tra noi, delle eccellenze reverendissime Monsignor Francesco Milito Vescovo della Diocesi di Oppido Palmi, Monsignor Vittorio Mondello e Monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, Arcivescovi emeriti dell’arcidiocesi di Reggio Bova, Monsignor Luigi Renzo vescovo di Mileto, Monsignor Francesco Oliva, Vescovo di Locri – Gerace Amministratore Apostolico di Mileto – Nicotera – Tropea, Monsignor Santo Marcianò Ordinario Militare per l’Italia, Monsignor Emil Paul Tscherrig , Nunzio Apostolico in Italia e San Marino. Eccellenza reverendissima, mi sia consentito di ribadirle i sentimenti di grande gioia che sta suscitando nella comunità reggina l’avvio del cammino che la comunità stessa sta compiendo al suo fianco, al fianco del suo nuovo Pastore. Sono forti le emozioni e vibranti le attese, come sempre accade quando inizia una storia nuova che ci coinvolge tutti. Al contempo, tuttavia, nel salutare e ringraziare l’Arcivescovo emerito che pochi mesi fa ha completato il suo cammino alla guida della comunità reggina, avvertiamo anche tutto il carico di responsabilità che questo passaggio così solenne ed emozionante reca con sé, nei confronti di ciascuno di noi. Un richiamo preciso che già ci spinge a volgere lo sguardo verso il rinnovato impegno a cui tutta la comunità reggina è chiamata, a sostegno della sua missione pastorale e del più generale percorso di riscatto che il nostro territorio sta coraggiosamente portando avanti. È una festa diversa dal solito, anche quella di quest’anno. Gli effetti di questa terribile pandemia continuano a sconvolgere le nostre vite, scatenando nella comunità sentimenti di smarrimento, di incertezza e precarietà, ed al contempo, soprattutto, ad affollare i reparti dei nostri ospedali, a mietere vittime nelle nostre famiglie, tra i nostri amici, tra i nostri affetti più cari. Quello che pensavamo non potesse mai accadere, troppo distratti dalle nostre effimere certezze, purtroppo nell’ultimo anno e mezzo è diventato un triste e difficoltoso calvario che stiamo tentando, faticosamente, di scalare. Una crisi sanitaria mondiale, difficilmente immaginabile fino a qualche tempo fa, è oggi una realtà che ha causato innumerevoli danni non solo alla salute delle persone, ma anche sul piano sociale ed economico, e contro la quale dobbiamo continuare a combattere, con l’obiettivo di riconquistare quella normalità che oggi tanto ci manca. Di fronte a tutto questo non esiste altra strada che la vaccinazione, unico strumento che ha evidenziato la sua efficacia alla luce delle risultanze scientifiche ad oggi disponibili e che costituisce l’unica chiave conosciuta per l’uscita dalla condizione pandemica. E tuttavia su questo tema, nonostante i tanti sforzi delle autorità sanitarie, e l’impegno encomiabile di migliaia di medici, infermieri e volontari, che non finiremo mai di ringraziare, c’è ancora molta strada da fare, in particolare fra i più giovani, ancora poco attenti agli inviti della comunità scientifica.

Tra pochi giorni inizierà la scuola e sono purtroppo migliaia gli studenti non ancora vaccinati; così come tanti ancora sono gli insegnanti che hanno deciso di non sottoporsi a vaccinazione. Una circostanza che ci preoccupa fortemente e sulla quale è necessario interrogarsi, a cominciare dal contesto delle famiglie che sono le agenzie educative primarie e che devono costituire un solido punto di riferimento nella coscienza dei più giovani. Non possiamo restare indifferenti di fronte a tutto questo, la libertà di ognuno di noi, bene prezioso e certamente irrinunciabile, trova un limite quando incontra quella dell’altro. E cosi l’invito è quello a rinunciare ad un pezzettino delle nostre convinzioni, spesso erronee o addirittura alimentate da una falsa propaganda, per tutelare la salute di chi ci circonda e per rispettare il sacrificio di migliaia di medici e sanitari, e di tutti coloro che per debellare questa crisi pandemica negli ultimi 18 mesi hanno rischiato in prima persona la loro salute, in alcuni casi donando la vita per tutelare la propria comunità. Eccellenza Reverendissima il mondo ancora vive giorni difficili. Guerra e distruzione sono purtroppo infausti protagonisti in aree geografiche, che da decenni ormai vivono una condizione di grande instabilità e di negazione dei diritti universali ed inalienabili della persona. Spesso facciamo l’errore di pensare che ciò che vediamo in televisione o su internet non ci riguardi, non ci sfiori, siano faccende lontane che in alcun modo possono influenzare le nostre vite. Invece talune vicende sono molto più vicine a noi di quanto pensiamo. E ci riguardano, non solo perché interferiscono sulla nostra esistenza, ma perché ci interrogano, nella qualità più nobile che nostro Signore ci ha donato, che è quella di essere persone senzienti, dotate di arbitrio e di umanità. Non esistono “cose dell’altro mondo”, esistono cose che stanno da un’altra parte del mondo, un mondo in cui esplodono bombe per strada, sono imposti gli usi, i costumi, è vietato pensare ed è vietata persino la musica, mentre sono annullati i diritti politici e di genere. E alle donne è fatto divieto di partecipare alla vita pubblica e di esprimere la propria opinione. Rispetto a tragedie come quella afgana non possiamo pensare di voltarci dall’altra parte, è per questo motivo che abbiamo già dato disponibilità al Governo a tendere una mano a quei bambini, quelle donne e quegli uomini che oggi sono in fuga dal loro paese e che accettano di aggrapparsi alle ali di un aereo in decollo, forse consapevoli di andare incontro ad una probabile morte, piuttosto che rimanere ostaggio degli orrori del regime che, nonostante venti anni di attività diplomatica internazionale, è tornato a governare le sorti di quel Paese. Noi abbiamo il dovere di dare una risposta di umanità a questi nostri fratelli. Con la Madonna della Consolazione che guida le nostre intenzioni e la virtù che accompagna le nostre braccia protese verso il bisogno.

Eccellenza Reverendissima, la consegna del cero votivo è solitamente l’occasione per fare un bilancio delle attività poste in essere dalla Amministrazione comunale nella gestione del bene comune. Pur tuttavia, di fronte alla tanta sofferenza che ancora c’è in città tutto viene meno e perde di significato. Non importa quanti risultati hai ottenuto, non importa quanta strada hai fatto, non importano neanche i sacrifici personali, la passione e l’intensità che ci hai messo. Importa solo il senso di grande amarezza che si prova quando ancora oggi non si riescono a garantire servizi dignitosi, quando manca l’acqua nelle case e quando l’ambiente è degradato dai rifiuti per strada. Potrei dire che alcune cose non dipendono dal sindaco, o solo dal sindaco, invece quello che è mio compito fare qui oggi è chiedere scusa per ciò che ancora non è stato raggiunto, per gli errori commessi, per le decisioni sbagliate, prese troppo tardi o non prese, ed impegnarmi personalmente, insieme ai componenti della Giunta, a continuare a lavorare sodo. Perché questo è ciò che fa un uomo delle istituzioni. Vergine Madre, a te affidiamo la nostra città e a te ci affidiamo come amministratori. Fa che l’ambizione personale dei singoli non contrasti col raggiungimento del bene comune che deve essere proprio di ogni buon amministratore. Siamo consapevoli che nessun uomo è un’isola e che nessuno si salva da solo e, nell’epoca dell’io al posto del noi, ti chiediamo di non fare venire meno due elementi essenziali in questo difficile cammino: la fiducia e la lealtà. La fiducia nel continuare a remare seguendo la rotta tracciata dal nocchiero, anche quando si fa fatica a intravedere un porto sicuro all’orizzonte e si è distratti dal fascino delle sirene, belle fuori ma pronte a trasformarsi in fiere assassine una volta in acqua. E poi la lealtà, che significa continuare a guardarsi negli occhi senza abbassare lo sguardo e fare quello che i cittadini ti hanno chiesto dandoti la loro di fiducia: lavorare per il bene della città. La lealtà è un debito, il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Nessuno, tuttavia, la può imporre con la forza, con la paura, con l’incertezza o con l’intimidazione. La lealtà deriva da una scelta che solo gli spiriti forti hanno il coraggio di fare. Infondi questa forza, Madre Celeste, a ognuno di noi, per resistere ai canti delle sirene, per non smettere di lottare, per non perdere la fiducia, per non dimenticare chi siamo, qual è la nostra storia e i nostri valori, e per spingere la notte più in là. Solo così questa città ce la farà. Eccellenza Reverendissima, con stima e gratitudine La ringrazio per il manifesto amore e la speranza Cristiana che animano il Suo Alto Ministero e, con medesimi sentimenti, rivolgo il cuore e l’animo al Clero reggino. O Patrona, con l’orgoglio del Primo cittadino, ravvivo la promessa del figlio verso la Madre e ti chiedo di stare vicina a tutti i tuoi figli che ogni giorno lottano per una città più giusta, più unita, più libera e che non perda mai la fiducia nel futuro.

Viva Maria, oggi e sempre”.

Nell’Omelia durante la celebrazione della Festa di Madonna, Mons. Morrone ricorda i morti in Aspromonte a causa degli incendi

Carissimi tutti nel Signore, fratelli e sorelle, popolo santo di Dio qui convocato, in occasione della solennità della B.V. Maria, Madre della consolazione, salute a pace a voi da Dio, il Padre di ogni benedizione e gioia. Saluto e ringrazio il nunzio apostolico, sua eccellenza reverendissima Monsignor Paul Emil Tscherrig, i vescovi emeriti monsignor Morosini e monsignor Mondello, un caro saluto e un augurio di ripresa a monsignor Nunnari; saluto e ringrazio per la loro presenza monsignor Oliva e monsignor Milito, inoltre l’ordinario militare monsignor Marcianò; un saluto caro e riconoscente a tutti i presbiteri, ai diaconi, alle religiose e ai religiosi qui convenuti, in particolare al vicario episcopale don Catanese e al moderatore di Curia monsignor Casile, al padre provinciale dei frati minori capuccini, al prevosto della cattedrale monsignor Sarica e in monsignor Denisi saluto il capitolo della Cattedrale. Saluto affettuosamente i seminaristi con il rettore don Pangallo. Ringrazio i portatori e i volontari e tutti coloro che hanno dato il loro significativo contributo alla nostra festa. Un cordiale e deferente saluto rivolgo a tutte le autorità civili, politiche e militari qui presenti, al Prefetto Mariani e al sindaco Falcomatà, che ringrazio per l’offerta del cero votivo e per l’indirizzo di saluto rivolto a tutta la comunità. Così esprimo gratitudine a tutte le autorità per la disponibilità, la collaborazione e il lavoro compiuto per la buona riuscita della festa a vantaggio della nostra città.

Abbiamo ascoltato dal Vangelo secondo Matteo l’annuncio delle beatitudini, il programma di vita beata, felice, umanissima vissuta e proposta da Gesù, ma per noi credenti del XXI sec, un po’ ben pensanti e smaliziati, diciamolo sommessamente, è un programma inaudito, per alcuni versi incredibile, semplicemente assurdo non perché non è stato mai udito, ma perché non l’abbiamo seriamente ascoltato e accolto, o semplicemente l’abbiamo neutralizzato, spiritualizzando le intemperanze profetiche del Maestro di Galilea. Si perché in fondo il programma di vita proposto da Gesù anche nella nostra predicazione ecclesiale l’abbiamo incapsulato in una speranza spostata nell’aldilà: tanto qui le cose, in questo mondo, nel nostro territorio, rimarranno sempre le stesse e noi non possiamo farci niente, al massimo possiamo fare i bravi. Da qui, tra l’altro, la tentazione di consolarci con riti e devozioni, affogando nelle varie feste religiose la rabbia delle ingiustizie subite o cercando di lavarci la coscienza da tante omissioni e ingiustizie, implorando dalla Vergine Maria di occultare sotto il suo manto materno i nostri peccati, le nostre reiterate trasgressioni. Con le beatitudini Gesù annuncia che Dio ha progetti di pace e di felicità per tutti, nessuno escluso. Ma di fronte ai mali del mondo di cui siamo parte, dichiarare fortunati i poveri, i senza tetto, i senza terra e i senza lavoro, i profughi è un po’ da matti. Dichiarare beato chi piange per congiunti bruciati negli incendi pianificati e provocati da criminali in Aspromonte è da folli schizzati; congratularsi con coloro che si impegnano con il sudore della propria fronte per mettere su onesto lavoro per sé e per gli altri, ma sistematicamente sono costretti a pagare il maledetto pizzo, è quantomeno offensivo. E tuttavia se crediamo nel Signore Gesù, fidandoci che Dio è gioiosamente capace di rendere felice già qui la vita di tutti, allora anche oggi siamo come sfidati a scommettere che il Vangelo poc’anzi ascoltato non è una poetica chimera, una sniffata religiosa per frustrati, ma è praticabile, è a misura del nostro cuore ed è l’unica via che ci umanizza radicalmente. Il Padre di Gesù, si fida di noi, crede in noi, scommette sempre su di noi, ci ritiene all’altezza dei suoi desideri di felicità per tutti.

Non siamo degli illusi: tanti uomini e donne, anche qui nella nostra arcidiocesi, ci hanno testimoniato al vivo la possibilità e la gioia di vivere il Vangelo beneficando coloro che hanno incontrato nel loro pellegrinaggio terreno. Questi nostri fratelli e sorelle maggiori hanno compreso che la paternità di Dio non si risolve in neutralità di fronte alle condizioni storiche degli uomini. In Gesù Dio si rivela il Padre appassionato che prende “parte” direttamente alle vicende umane ponendosi esplicitamente dalla parte degli ultimi, degli inermi, dei poveri per rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili. Così Maria, evocando le promesse messianiche, nel suo Magnificat (cfr. Lc 1,46-55) loda il Signore della storia per aver dato inizio ad un capovolgimento di sorti nelle vicende umane. In realtà in Gesù le beatitudini sono come i lineamenti divini del suo profilo umano. È lui il povero e l’oppresso, è lui che piange per la città santa che non riconosce la visita di Dio, è Lui il mite e il misericordioso, è lui il perseguitato per aver posto sopra ogni legge e al di sopra di ogni sacra tradizione religiosa la persona umana, è lui lo scartato che nasce e muore fuori dalla città degli uomini.

Si, nella persona di Gesù le beatitudini sono entrate nel nostro mondo, ma richiedono il nostro consenso perché prendano corpo: nell’annuncio viene messa in gioco la nostra libertà a cui Dio è legato per sempre nell’alleanza consumata dal suo Figlio nel culmine pasquale della sua vicenda storica: “quando sarò innalzato attirerò tutti a me”. (oggi esaltazione della croce gloriosa il crocifisso riscatta la croce, somma delle ingiustizie). Cari fratelli e sorelle, le tante povertà, miserie e ingiustizie che investono globalmente milioni di esseri umani e che sconvolgono l’ecosistema planetario, non sono frutto di un destino atroce o di un Dio che ciecamente manda croci ai suoi figli. Sono in realtà chiarissime conseguenze di tante scelte o omissioni peccaminose quotidiane di cui ciascuno di noi è responsabile (questione ecologica, ecc), oltre che di complesse cause storico-sociali-culturali-economiche-religiose (strutture di peccato) che singolarmente ci superano. E tuttavia, la reale promessa delle beatitudini inizia a farsi storia anche nella nostra vita quando entriamo nella consapevolezza di non bastare a noi stessi, di non avere in noi la radice della vita, insomma di non essere Dio, cioè di essere dei poveri, creature bisognose del Suo sostegno e perdono: qui inizia il senso della beatitudine che mette a nudo l’inconsistenza di ogni arrogante superbia della vita, causa del male. I verbi che ritmano al futuro l’andamento delle beatitudini ci dicono chiaramente che Dio non viene a toglierci le castagne dal fuoco, trattandoci come appendice subalterna dei suoi desideri, obliterando la nostra libertà e sollevandoci da ogni responsabilità. Come ci ricorda sant’Agostino, “il Dio che ci ha creati senza il nostro consenso, non ci salva, non ci rende felici senza il nostro si”. Gesù non ci illude: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8).

Tuttavia crediamo che la promessa si è già realizzata in Gesù. Il nostro presente è già fecondato e segnato dalla presenza del Signore risorto, è Lui il nostro futuro personale: chi segue me avrà la luce della vita (cfr Gv 8,12). Il domani non è posto dunque sotto il segno del fato, che noi calabresi decliniamo nell’espressione “era destino… non possiamo farci niente”, mentalità foraggiata da chi vuole l’immobilismo delle nostre coscienze ancorate e anchilosate nel nostro stesso dialetto al passato: il nostro idioma calabrese non declina i verbi al futuro. Questa rassegnazione, presente nel linguaggio religioso popolare, è disistima di sé e del Signore: la sfiducia nella vita è un atto di incredulità nel Padre di Gesù che ci vuole protagonisti concreativi di questo mondo che già salvato in Gesù è posto nelle nostre mani: la cura del creato, intesa nell’accezione di un’ecologia integrale da papa Francesco, ci spinge a un cambiamento di paradigma che investa il modo di intendere il nostro vissuto credente chiamato tra l’altro sempre a custodire, promuovere e salvaguardare l’intangibilità della vita umana in tutte le sue fasi e nella sue dimensioni affettive, sociali ed economiche. Pertanto: com’è possibile che la secolare fede cristiana, annuncio del mondo nuovo in Gesù, qui in Calabria in genere non abbia assunto e declinato nella vita il linguaggio della speranza che sostanzia la responsabilità civica e civile e corrobora il protagonismo creativo nella sfera socio-culturale e politica della civitas, mentre si è ben espressa nel linguaggio rituale ripetitivo di una religiosità consolatoria e non poche volte alienante? È una domanda complessa (antropologia, sociologia, storia, ecc) più volte affrontata nei nostri studi o convegni pastorali ma che non possiamo eludere nel cammino sinodale che ci attende.

In tal senso le beatitudini, somma del Vangelo, sono come l’antidoto di una cultura religiosa presente nel nostro cattolicesimo che, nel passato e ancora oggi, tende a relegare nel privato personale e in quello famigliare la forza dirompente e innovatrice della fede cristiana, la fede della Chiesa segno sacramentale dell’agire misericordioso e liberante di Dio, fortemente intenzionato a ristabilire il diritto, la giustizia e la pace, stelle polari per tutti i cristiani, specialmente per chi ha deciso di esercitare la carità nel servire la città degli uomini nell’agone socio-politico-amministrativo[1], qui nel comprensorio reggino. Le beatitudini tuttavia, come ci ha ammonito Gesù, sono “una porta stretta” da attraversare (Lc 13,24), un passaggio faticoso da una mentalità vecchia e mortifera a quella nuova e vivente della promessa di Dio. Questo richiede una lotta anzitutto contro il proprio egocentrismo e narcisismo, un’ascesi, una salita in alto che da soli è impossibile conseguire: inevitabilmente si perde il respiro. Le beatitudini richiedono il passaggio dall’io al noi, dal mito illusorio e soffocante del self made man, al respiro originario delle relazioni umane comunitarie. Ci insegnerà pur qualcosa in tal senso l’esperienza drammatica causata dal Covid?

Certamente nella pandemia le più belle energie umane nei volti dei sanitari, degli educatori, degli amministratori e politici, delle forze dell’ordine, di singoli o associati cittadini, dei nostri preti e dei volontari della caritas diocesana per la prossimità capillare profusa, questi e tanti altri hanno espresso la vera natura solidale del nostro essere umani. Siamo fatti per il bene e il bene ha sempre il volto della socialità. Pertanto come è già stato affermato più volte dai vescovi calabresi: o ci lasciamo salvare dal Signore insieme, o non ci si salva affatto. Questo non destruttura la personale responsabilità ma la rilancia consapevolmente: non siamo numeri, oggetti, ma soggetti in quanto persone, cioè volti: il nostro dna profondo è predisposto per la relazione, negarla è la nostra tomba. Pertanto i cristiani, in forza della loro fede nel Dio di Gesù che ama da morire tutta l’umanità, condividono il loro impegno con tutti coloro che lavorano per la crescita della convivenza umana, dalle istituzioni alle tante forme di volontariato.

In tal senso, è antica e consolidata tradizione che questa nostra festa religiosa coinvolga anche le istituzioni civili qui presenti. In qualche modo è anche la vostra festa, o in altri termini: la vostra presenza qui ci dice chiaramente che siete ben disposti a mettere insieme le vostre energie e competenze con le nostre, per il bene di tutte le persone che abitano questa splendida città e il suo comprensorio. Allora, camminiamo insieme come istituzioni, ma fattivamente, dialogicamente e nel pieno rispetto dei propri ambiti di competenza e di responsabilità, avendo a cuore in modo particolare le nostre giovani e i nostri giovani per i quali mi pare siano carenti l’interesse e le proposte politiche di ampio respiro per onorare quel patto intergenerazionale educativo, fortemente penalizzato dalla pandemia, che dà orizzonte di senso e futuro alla società civile nel suo insieme.

A voi giovani chiedo di preparavi seriamente per essere attori e protagonisti nei processi decisionali che investiranno la vostra vita presente e futura e, dunque, dell’intera società che spero abiterete molto meglio di quanto siamo riusciti noi adulti. Protestate contro chi vi blandisce con proposte di basso profilo per omologarvi e non vendete la vostra intelligenza ai mercanti di fumo che annebbiano la vostra coscienza, libera solo se compie il bene. Siate cittadini attivi uscendo però dalla logica familistica ambientale che unita a quella del comparaggio negli ambiti della vita sociale, impedisce alle più belle e sincere energie, intelligenze, competenze professionali e imprenditoriali umane di promuovere nella nostra terra una nuova stagione culturale e politica. Le beatitudini ci offrono la via da percorre per uscire da questa mentalità, ma sarà possibile se vivremo quest’avventura insieme per guardare avanti con serena fiducia. In tal senso, in questi anni di cammino sinodale, intendiamo immettere il nostro comune percorso ecclesiale, nell’orizzonte programmatico enunciato da EG: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia». Il nostro cammino ecclesiale deve partire da questa interiore certezza, altrimenti rischia di risolversi in una sorta di struscio religioso che non innerva la vita affettiva, famigliare, sociale, amministrativa, politica e culturale del nostro territorio. La credibilità della nostra fede declinata nei nostri programmi pastorali, nelle assemblee liturgiche, nelle varie iniziative parrocchiali e sociali è strettamente legata alla gioia evangelica, frutto dell’incontro personale con Cristo «che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1), così Benedetto XVI.

Alla luce delle beatitudini, che dilatano gli orizzonti del cammino dell’umanità e offrono una visione profetica e anticipatrice degli esiti della storia, saremo chiamati a immaginare corresponsabilmente e insieme il nostro essere chiesa in questo mondo reggino e, pertanto, sollecitati a osare nuovi percorsi pastorali, senza aver paura di rischiare di fronte ai nuovi processi culturali e sociali, alle nuove istanze etiche e ai nuovi paradigmi economici, politici e giuridici, che in modo sempre più veloce il mondo, di cui siamo un piccola parte, ci riserva. Il coraggio di rischiare, come atto della libertà della fede, genera novità e sviluppi di esistenza liberata dal male. Perciò con papa Francesco sogniamo anche noi una chiesa in uscita (EG 20ss), come scelta missionaria radicale (EG 27) che impedisce alle nostre comunità di cadere nella trappola dell’introversione, della chiusura, della rigidità, anticamera della sterilità pastorale. La fede infatti si rafforza donandola (GP II, RM 1) così come «comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa» (EG 9) nel cuore di ogni persona. Come chiesa siamo chiamati in forza dell’insuperabile Novum evangelico a stare dentro i processi globali e locali sempre più complessi ma ricchi di nuove opportunità per l’annuncio di Cristo. Tirarsi fuori o arroccarsi su strutture, linguaggi, consuetudini ecclesiastiche e pastorali consolidate perché offrono sicurezza, ma sono contenitori vecchi usurati dal tempo e perciò non in grado di contenere il vino sempre fresco e frizzante del Vangelo, significa negare la dinamica rivelativa del principio cardine del cristianesimo: il farsi carne-uomo-storia (εγηνετο) del Verbo eterno.

Ci disponiamo in questo comune cammino a lasciarci guidare dalla luce della Parola riflessa nella prima e originaria esperienza ecclesiale custodita negli Atti degli apostoli per comprendere come vivere il «processo ecclesiale partecipativo ed inclusivo che offra a ciascuno l’opportunità di esprimersi di essere ascoltato per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio» (Doc. preparatorio della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, 9 settembre 2021) Il come, i tempi, i modi le scelte del cammino sinodale le comprenderemo strada facendo, disponendoci anzitutto ad ascoltare il Signore che ci ha parlato in questo tempo di crisi pandemica, nell’esercizio non scontato di saperci reciprocamente ascoltare coinvolgendo e facendoci carico del vissuto delle nostre comunità parrocchiali, dei cittadini e ospiti che vivono in questo nostro territorio. A te beata Maria che hai creduto alla parola fedele e affidabile del Signore, affidiamo la nostra Chiesa diocesana e la nostra città, in modo particolare le donne che in essa vi abitano, perché nell’ascolto sincero della loro esperienza, contraddistinto dal fiuto della vita buona e dall’appassionata audacia profetica mostrato in tutti gli ambiti dell’esistenza, ci aiutino, nella lettura dei segni dei tempi e nei processi decisionali ecclesiali, a osare di più verso una fraternità evangelicamente solidale, semplicemente e gioiosamente umana. Prega per noi, santa madre della consolazione, perché crescendo in santità e giustizia nello spirito delle beatitudini di tuo Figlio Gesù, possiamo gustare la gioia di camminare insieme in questo breve pellegrinaggio terreno, nell’attesa di godere la felicità senza fine del Regno che Dio Padre ha preparato per tutti.

Nell’Omelia durante la celebrazione per la Festa di Madonna, Mons. Morrone, arcivescovo di Reggio Calabria, ha ricordato i morti in Aspromonte a causa degli incendi:

“Carissimi tutti nel Signore, fratelli e sorelle, popolo santo di Dio qui convocato, in occasione della solennità della B.V. Maria, Madre della consolazione, salute a pace a voi da Dio, il Padre di ogni benedizione e gioia. Saluto e ringrazio il nunzio apostolico, sua eccellenza reverendissima Monsignor Paul Emil Tscherrig, i vescovi emeriti monsignor Morosini e monsignor Mondello, un caro saluto e un augurio di ripresa a monsignor Nunnari; saluto e ringrazio per la loro presenza monsignor Oliva e monsignor Milito, inoltre l’ordinario militare monsignor Marcianò; un saluto caro e riconoscente a tutti i presbiteri, ai diaconi, alle religiose e ai religiosi qui convenuti, in particolare al vicario episcopale don Catanese e al moderatore di Curia monsignor Casile, al padre provinciale dei frati minori capuccini, al prevosto della cattedrale monsignor Sarica e in monsignor Denisi saluto il capitolo della Cattedrale. Saluto affettuosamente i seminaristi con il rettore don Pangallo. Ringrazio i portatori e i volontari e tutti coloro che hanno dato il loro significativo contributo alla nostra festa.

Un cordiale e deferente saluto rivolgo a tutte le autorità civili, politiche e militari qui presenti, al Prefetto Mariani e al sindaco Falcomatà, che ringrazio per l’offerta del cero votivo e per l’indirizzo di saluto rivolto a tutta la comunità. Così esprimo gratitudine a tutte le autorità per la disponibilità, la collaborazione e il lavoro compiuto per la buona riuscita della festa a vantaggio della nostra città. Abbiamo ascoltato dal Vangelo secondo Matteo l’annuncio delle beatitudini, il programma di vita beata, felice, umanissima vissuta e proposta da Gesù, ma per noi credenti del XXI sec, un po’ ben pensanti e smaliziati, diciamolo sommessamente, è un programma inaudito, per alcuni versi incredibile, semplicemente assurdo non perché non è stato mai udito, ma perché non l’abbiamo seriamente ascoltato e accolto, o semplicemente l’abbiamo neutralizzato, spiritualizzando le intemperanze profetiche del Maestro di Galilea. Si perché in fondo il programma di vita proposto da Gesù anche nella nostra predicazione ecclesiale l’abbiamo incapsulato in una speranza spostata nell’aldilà: tanto qui le cose, in questo mondo, nel nostro territorio, rimarranno sempre le stesse e noi non possiamo farci niente, al massimo possiamo fare i bravi. Da qui, tra l’altro, la tentazione di consolarci con riti e devozioni, affogando nelle varie feste religiose la rabbia delle ingiustizie subite o cercando di lavarci la coscienza da tante omissioni e ingiustizie, implorando dalla Vergine Maria di occultare sotto il suo manto materno i nostri peccati, le nostre reiterate trasgressioni. Con le beatitudini Gesù annuncia che Dio ha progetti di pace e di felicità per tutti, nessuno escluso. Ma di fronte ai mali del mondo di cui siamo parte, dichiarare fortunati i poveri, i senza tetto, i senza terra e i senza lavoro, i profughi è un po’ da matti. Dichiarare beato chi piange per congiunti bruciati negli incendi pianificati e provocati da criminali in Aspromonte è da folli schizzati; congratularsi con coloro che si impegnano con il sudore della propria fronte per mettere su onesto lavoro per sé e per gli altri, ma sistematicamente sono costretti a pagare il maledetto pizzo, è quantomeno offensivo. E tuttavia se crediamo nel Signore Gesù, fidandoci che Dio è gioiosamente capace di rendere felice già qui la vita di tutti, allora anche oggi siamo come sfidati a scommettere che il Vangelo poc’anzi ascoltato non è una poetica chimera, una sniffata religiosa per frustrati, ma è praticabile, è a misura del nostro cuore ed è l’unica via che ci umanizza radicalmente. Il Padre di Gesù, si fida di noi, crede in noi, scommette sempre su di noi, ci ritiene all’altezza dei suoi desideri di felicità per tutti.

Non siamo degli illusi: tanti uomini e donne, anche qui nella nostra arcidiocesi, ci hanno testimoniato al vivo la possibilità e la gioia di vivere il Vangelo beneficando coloro che hanno incontrato nel loro pellegrinaggio terreno. Questi nostri fratelli e sorelle maggiori hanno compreso che la paternità di Dio non si risolve in neutralità di fronte alle condizioni storiche degli uomini. In Gesù Dio si rivela il Padre appassionato che prende “parte” direttamente alle vicende umane ponendosi esplicitamente dalla parte degli ultimi, degli inermi, dei poveri per rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili. Così Maria, evocando le promesse messianiche, nel suo Magnificat (cfr. Lc 1,46-55) loda il Signore della storia per aver dato inizio ad un capovolgimento di sorti nelle vicende umane. In realtà in Gesù le beatitudini sono come i lineamenti divini del suo profilo umano. È lui il povero e l’oppresso, è lui che piange per la città santa che non riconosce la visita di Dio, è Lui il mite e il misericordioso, è lui il perseguitato per aver posto sopra ogni legge e al di sopra di ogni sacra tradizione religiosa la persona umana, è lui lo scartato che nasce e muore fuori dalla città degli uomini. Si, nella persona di Gesù le beatitudini sono entrate nel nostro mondo, ma richiedono il nostro consenso perché prendano corpo: nell’annuncio viene messa in gioco la nostra libertà a cui Dio è legato per sempre nell’alleanza consumata dal suo Figlio nel culmine pasquale della sua vicenda storica: “quando sarò innalzato attirerò tutti a me”. (oggi esaltazione della croce gloriosa il crocifisso riscatta la croce, somma delle ingiustizie). Cari fratelli e sorelle, le tante povertà, miserie e ingiustizie che investono globalmente milioni di esseri umani e che sconvolgono l’ecosistema planetario, non sono frutto di un destino atroce o di un Dio che ciecamente manda croci ai suoi figli. Sono in realtà chiarissime conseguenze di tante scelte o omissioni peccaminose quotidiane di cui ciascuno di noi è responsabile (questione ecologica, ecc), oltre che di complesse cause storico-sociali-culturali-economiche-religiose (strutture di peccato) che singolarmente ci superano.

E tuttavia, la reale promessa delle beatitudini inizia a farsi storia anche nella nostra vita quando entriamo nella consapevolezza di non bastare a noi stessi, di non avere in noi la radice della vita, insomma di non essere Dio, cioè di essere dei poveri, creature bisognose del Suo sostegno e perdono: qui inizia il senso della beatitudine che mette a nudo l’inconsistenza di ogni arrogante superbia della vita, causa del male. I verbi che ritmano al futuro l’andamento delle beatitudini ci dicono chiaramente che Dio non viene a toglierci le castagne dal fuoco, trattandoci come appendice subalterna dei suoi desideri, obliterando la nostra libertà e sollevandoci da ogni responsabilità. Come ci ricorda sant’Agostino, “il Dio che ci ha creati senza il nostro consenso, non ci salva, non ci rende felici senza il nostro si”. Gesù non ci illude: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8). Tuttavia crediamo che la promessa si è già realizzata in Gesù. Il nostro presente è già fecondato e segnato dalla presenza del Signore risorto, è Lui il nostro futuro personale: chi segue me avrà la luce della vita (cfr Gv 8,12). Il domani non è posto dunque sotto il segno del fato, che noi calabresi decliniamo nell’espressione “era destino… non possiamo farci niente”, mentalità foraggiata da chi vuole l’immobilismo delle nostre coscienze ancorate e anchilosate nel nostro stesso dialetto al passato: il nostro idioma calabrese non declina i verbi al futuro. Questa rassegnazione, presente nel linguaggio religioso popolare, è disistima di sé e del Signore: la sfiducia nella vita è un atto di incredulità nel Padre di Gesù che ci vuole protagonisti concreativi di questo mondo che già salvato in Gesù è posto nelle nostre mani: la cura del creato, intesa nell’accezione di un’ecologia integrale da papa Francesco, ci spinge a un cambiamento di paradigma che investa il modo di intendere il nostro vissuto credente chiamato tra l’altro sempre a custodire, promuovere e salvaguardare l’intangibilità della vita umana in tutte le sue fasi e nella sue dimensioni affettive, sociali ed economiche.

Pertanto: com’è possibile che la secolare fede cristiana, annuncio del mondo nuovo in Gesù, qui in Calabria in genere non abbia assunto e declinato nella vita il linguaggio della speranza che sostanzia la responsabilità civica e civile e corrobora il protagonismo creativo nella sfera socio-culturale e politica della civitas, mentre si è ben espressa nel linguaggio rituale ripetitivo di una religiosità consolatoria e non poche volte alienante? È una domanda complessa (antropologia, sociologia, storia, ecc) più volte affrontata nei nostri studi o convegni pastorali ma che non possiamo eludere nel cammino sinodale che ci attende. In tal senso le beatitudini, somma del Vangelo, sono come l’antidoto di una cultura religiosa presente nel nostro cattolicesimo che, nel passato e ancora oggi, tende a relegare nel privato personale e in quello famigliare la forza dirompente e innovatrice della fede cristiana, la fede della Chiesa segno sacramentale dell’agire misericordioso e liberante di Dio, fortemente intenzionato a ristabilire il diritto, la giustizia e la pace, stelle polari per tutti i cristiani, specialmente per chi ha deciso di esercitare la carità nel servire la città degli uomini nell’agone socio-politico-amministrativo[1], qui nel comprensorio reggino.

Le beatitudini tuttavia, come ci ha ammonito Gesù, sono “una porta stretta” da attraversare (Lc 13,24), un passaggio faticoso da una mentalità vecchia e mortifera a quella nuova e vivente della promessa di Dio. Questo richiede una lotta anzitutto contro il proprio egocentrismo e narcisismo, un’ascesi, una salita in alto che da soli è impossibile conseguire: inevitabilmente si perde il respiro. Le beatitudini richiedono il passaggio dall’io al noi, dal mito illusorio e soffocante del self made man, al respiro originario delle relazioni umane comunitarie. Ci insegnerà pur qualcosa in tal senso l’esperienza drammatica causata dal Covid? Certamente nella pandemia le più belle energie umane nei volti dei sanitari, degli educatori, degli amministratori e politici, delle forze dell’ordine, di singoli o associati cittadini, dei nostri preti e dei volontari della caritas diocesana per la prossimità capillare profusa, questi e tanti altri hanno espresso la vera natura solidale del nostro essere umani. Siamo fatti per il bene e il bene ha sempre il volto della socialità. Pertanto come è già stato affermato più volte dai vescovi calabresi: o ci lasciamo salvare dal Signore insieme, o non ci si salva affatto. Questo non destruttura la personale responsabilità ma la rilancia consapevolmente: non siamo numeri, oggetti, ma soggetti in quanto persone, cioè volti: il nostro dna profondo è predisposto per la relazione, negarla è la nostra tomba. Pertanto i cristiani, in forza della loro fede nel Dio di Gesù che ama da morire tutta l’umanità, condividono il loro impegno con tutti coloro che lavorano per la crescita della convivenza umana, dalle istituzioni alle tante forme di volontariato. In tal senso, è antica e consolidata tradizione che questa nostra festa religiosa coinvolga anche le istituzioni civili qui presenti. In qualche modo è anche la vostra festa, o in altri termini: la vostra presenza qui ci dice chiaramente che siete ben disposti a mettere insieme le vostre energie e competenze con le nostre, per il bene di tutte le persone che abitano questa splendida città e il suo comprensorio. Allora, camminiamo insieme come istituzioni, ma fattivamente, dialogicamente e nel pieno rispetto dei propri ambiti di competenza e di responsabilità, avendo a cuore in modo particolare le nostre giovani e i nostri giovani per i quali mi pare siano carenti l’interesse e le proposte politiche di ampio respiro per onorare quel patto intergenerazionale educativo, fortemente penalizzato dalla pandemia, che dà orizzonte di senso e futuro alla società civile nel suo insieme. A voi giovani chiedo di preparavi seriamente per essere attori e protagonisti nei processi decisionali che investiranno la vostra vita presente e futura e, dunque, dell’intera società che spero abiterete molto meglio di quanto siamo riusciti noi adulti. Protestate contro chi vi blandisce con proposte di basso profilo per omologarvi e non vendete la vostra intelligenza ai mercanti di fumo che annebbiano la vostra coscienza, libera solo se compie il bene. Siate cittadini attivi uscendo però dalla logica familistica ambientale che unita a quella del comparaggio negli ambiti della vita sociale, impedisce alle più belle e sincere energie, intelligenze, competenze professionali e imprenditoriali umane di promuovere nella nostra terra una nuova stagione culturale e politica.

Le beatitudini ci offrono la via da percorre per uscire da questa mentalità, ma sarà possibile se vivremo quest’avventura insieme per guardare avanti con serena fiducia. In tal senso, in questi anni di cammino sinodale, intendiamo immettere il nostro comune percorso ecclesiale, nell’orizzonte programmatico enunciato da EG: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia». Il nostro cammino ecclesiale deve partire da questa interiore certezza, altrimenti rischia di risolversi in una sorta di struscio religioso che non innerva la vita affettiva, famigliare, sociale, amministrativa, politica e culturale del nostro territorio. La credibilità della nostra fede declinata nei nostri programmi pastorali, nelle assemblee liturgiche, nelle varie iniziative parrocchiali e sociali è strettamente legata alla gioia evangelica, frutto dell’incontro personale con Cristo «che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1), così Benedetto XVI. Alla luce delle beatitudini, che dilatano gli orizzonti del cammino dell’umanità e offrono una visione profetica e anticipatrice degli esiti della storia, saremo chiamati a immaginare corresponsabilmente e insieme il nostro essere chiesa in questo mondo reggino e, pertanto, sollecitati a osare nuovi percorsi pastorali, senza aver paura di rischiare di fronte ai nuovi processi culturali e sociali, alle nuove istanze etiche e ai nuovi paradigmi economici, politici e giuridici, che in modo sempre più veloce il mondo, di cui siamo un piccola parte, ci riserva. Il coraggio di rischiare, come atto della libertà della fede, genera novità e sviluppi di esistenza liberata dal male. Perciò con papa Francesco sogniamo anche noi una chiesa in uscita (EG 20ss), come scelta missionaria radicale (EG 27) che impedisce alle nostre comunità di cadere nella trappola dell’introversione, della chiusura, della rigidità, anticamera della sterilità pastorale. La fede infatti si rafforza donandola (GP II, RM 1) così come «comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa» (EG 9) nel cuore di ogni persona.

Come chiesa siamo chiamati in forza dell’insuperabile Novum evangelico a stare dentro i processi globali e locali sempre più complessi ma ricchi di nuove opportunità per l’annuncio di Cristo. Tirarsi fuori o arroccarsi su strutture, linguaggi, consuetudini ecclesiastiche e pastorali consolidate perché offrono sicurezza, ma sono contenitori vecchi usurati dal tempo e perciò non in grado di contenere il vino sempre fresco e frizzante del Vangelo, significa negare la dinamica rivelativa del principio cardine del cristianesimo: il farsi carne-uomo-storia (εγηνετο) del Verbo eterno. Ci disponiamo in questo comune cammino a lasciarci guidare dalla luce della Parola riflessa nella prima e originaria esperienza ecclesiale custodita negli Atti degli apostoli per comprendere come vivere il «processo ecclesiale partecipativo ed inclusivo che offra a ciascuno l’opportunità di esprimersi di essere ascoltato per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio» (Doc. preparatorio della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, 9 settembre 2021) Il come, i tempi, i modi le scelte del cammino sinodale le comprenderemo strada facendo, disponendoci anzitutto ad ascoltare il Signore che ci ha parlato in questo tempo di crisi pandemica, nell’esercizio non scontato di saperci reciprocamente ascoltare coinvolgendo e facendoci carico del vissuto delle nostre comunità parrocchiali, dei cittadini e ospiti che vivono in questo nostro territorio. A te beata Maria che hai creduto alla parola fedele e affidabile del Signore, affidiamo la nostra Chiesa diocesana e la nostra città, in modo particolare le donne che in essa vi abitano, perché nell’ascolto sincero della loro esperienza, contraddistinto dal fiuto della vita buona e dall’appassionata audacia profetica mostrato in tutti gli ambiti dell’esistenza, ci aiutino, nella lettura dei segni dei tempi e nei processi decisionali ecclesiali, a osare di più verso una fraternità evangelicamente solidale, semplicemente e gioiosamente umana. Prega per noi, santa madre della consolazione, perché crescendo in santità e giustizia nello spirito delle beatitudini di tuo Figlio Gesù, possiamo gustare la gioia di camminare insieme in questo breve pellegrinaggio terreno, nell’attesa di godere la felicità senza fine del Regno che Dio Padre ha preparato per tutti”.

[1]«Tutti i cristiani sono obbligati ad impegnarsi politicamente. La politica è la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio”.» Così già Pio XI, ripreso poi da Paolo VI … patrimonio della DSC.Cfr D. BERTETTO (ed.), Discorsi di Pio XI. Volume I 1922-1928, SEI,  745.

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