Il castello Ruffo è un’antica fortezza situata sul promontorio di Scilla e proteso sullo stretto di Messina
di Enrico Pescatore- Il castello Ruffo è un’antica fortezza situata sul promontorio di Scilla e proteso sullo stretto di Messina. L’avvento della famiglia Ruffo a Scilla ha una storia lontana, quando Ferdinando II detto “il Cattolico” divenne nel 1504, Re di Napoli a seguito della “Disfida di Barletta”, dove la corona di Spagna alleatasi con gli italiani, sconfisse i francesi, riuscendo a completare il Regno. Nel 1506 il Re Ferdinando II aveva accolto positivamente la richiesta da parte del Comune di Scilla “la Università”, confermando ai cittadini i privilegi concessi dai precedenti sovrani, con pari esenzioni e franchigie di Messina e Lipari. Il Principe Pietro De Nava proprietario del Castello di Scilla contestò da subito questo stato di fatto e cercò di poter imporre alcune tasse chiamate a quel tempo “balzelli”. Ma gli scillesi opposero continue resistenze rifiutando le nuove imposte che pretendeva di imporre il castellano. Nel 1518 alla morte di Pietro De Nava, gli successe come Principe di Scilla il figlio Gutterra che continuò ad insistere e pretendere ciò che il padre non aveva ottenuto. L’Università di Scilla denunciò la controversia contro il castellano, addirittura alla corte dell’imperatore Carlo V che nell’aprile del 1520 decretò un “Novello diploma” ispirato alle norme osservate dalla Costituzione del Regno. Il Sacro Regio Decreto come bilanciamento dei poteri, stabilì che i “sindacatori” dovevano presiedere a tutti gli atti per nomina annuale del governatore del paese, affinché fosse allontanata ogni occasione di frode o accordi poco trasparenti con il feudatario. La convenzione tra gli scillesi e il loro Principe durò soltanto 11 anni, quando il 26 dicembre del 1533, Gutterra De Nava vendette il Feudo di Scilla al cognato Paolo Ruffo, “Conte di Sinopoli”.
Il Conte Paolo in un primo momento fu molto attivo e illuminato, iniziò un opera di fortificazione del Castello, del Palazzo a Chianalea e tanti altri edifici divenuti di sua proprietà, a spese della Regia Corte. Restaurò ed abbellì il Palazzo Feudale come un forte inespugnabile e vi pose la lapide della propria famiglia sostituendo lo stemma della famiglia De Nava, quando la famiglia Ruffo ottenne il titolo di principe. Ma in breve tempo le cose cambiarono, poiché il Conte Paolo, approfittando della crisi politica dell’Impero di Carlo V, iniziò a pretendere dagli scillesi imposte, lavori e cortesie, favorito anche dalle lungaggini dei 65 capi d’accusa che i sindaci di Scilla nel 1557, Leonzio Vizzari e Michele Trombetta avevano presentato contro di lui, al Sacro Regio Consiglio. Gli scillesi si opponevano al Principe Paolo Ruffo, soprattutto per l’obbligo gratuito della guardia al castello, contro la pretesa dell’ottava parte del vino che producevano dalle loro vigne e per il rotolo di carne o l’equivalente in denaro per ogni animale di qualsiasi specie che si fosse macellato per la pubblica vendita, che poi il Conte estese a tutti i prodotti commerciali. Quando Carlo V, il 22 ottobre del 1555, abdicò per una evidente crisi finanziaria dell’Impero Asburgico che unendosi con quello spagnolo divenne troppo grande e difficilmente gestibile, consegnò al fratello Ferdinando I, il trono di Imperatore del Sacro Romano Impero, mentre il figlio Filippo II di Spagna detto “Filippo il prudente” era divenuto Re del Regno di Napoli il 24 luglio del 1554. Anche le periferie del Regno di Napoli e della Sicilia divennero meno controllabili burocraticamente, soprattutto perché si tolse la giurisdizione ai magistrati municipali, affidandola al Regio Ufficiale o “Portolano”. Il Principe Paolo Ruffo dichiarò subito che nell’interesse del Regio Fisco ad esprimersi sul fatto, fosse competente la Regia Camera Sommaria e non il Sacro Regio Consiglio. Paolo Ruffo impugnò così, il diritto di “portolonia di terra”, comprato dalla Regia Corte a Napoli con atto notarile del 6 maggio del 1556, che gli permise di adottare ampi poteri. Si assunse la facoltà di poter vigilare le strade e i luoghi pubblici, proibire l’apertura di alberghi e osterie, vietare l’uso delle acque dei torrenti per irrigare i terreni per l’agricoltura o per mettere in moto i mulini, impedire la raccolta di castagne o di ghiande e vietare il taglio del legname nei boschi, oltre a pretendere il monopolio della macinazione del frumento.
Tutti questi “gravami” permisero al Conte di trovare la “scusante” di multare i contravventori e abrogarsi anche il diritto delle misure e dei pesi, istituendo una vera e propria dittatura. Avuta questa giurisdizione, il Conte Paolo Ruffo iniziò le vessazioni sugli scillesi, ordinando ai suoi ufficiali ti infliggere continue obbligazioni pecuniarie a chi non rispettava le sue regole. Ai reclami degli scillesi per le sanzioni inflitte in modo arbitrario, il Conte Ruffo nel 1558 comparve innanzi alla Regia Camera, la quale il 6 settembre di quell’anno con una ordinanza regolamentava le multe ai contravventori. Ma anche dopo questa sentenza, le vessazioni del Conte Ruffo nei confronti degli scillesi continuarono anzi peggiorarono, poiché mise altre imposizioni sulla pesca. Il Conte Paolo Ruffo diede l’opportunità di vendita libera solo ai pescatori che avevano provveduto di pagare la quota del pescato o che gli avevano regalato le necessarie provviste. Egli pretese infatti una tassa di affitto su tutti i promontori usati per avvistare il pesce spada e vietò la raccolta di ostriche e molluschi sotto gli scogli del Castello e dei faraglioni. Nel 1559 il Conte Paolo Ruffo morì e il nuovo castellano fu suo figlio Fabrizio, che cercò di continuare l’opera cruenta del padre contro gli scillesi, ma due sentenze, quella del 12 aprile 1559 e del 14 luglio 1564 del Sacro Regio Consiglio limitarono fortemente le pretese e i poteri della famiglia Ruffo, attenuando per il momento le continue liti coi Sindaci di Scilla. Don Fabrizio Ruffo in punto di morte, fu confortato dall’amico gesuita Padre Antonino D’Amore che lo convinse a riconoscere tutte le ingiustizie nei confronti dei cittadini scillesi, obbligando i propri eredi a risarcire i danni con un testamento presentato al notaio Carlo Rutilio di Bagnara Calabra il 22 febbraio del 1587, dopo la morte del principe. Gli eredi di Don Fabrizio si opposero al testamento del padre facendo ricorso, ma il 13 ottobre del 1603 il Sacro Reale Consiglio condannò le figlie Maria e Margherita Caterina Ruffo al pagamento di settimila ducati nei confronti della Università di Scilla, anche se in realtà le problematiche della sentenza furono tutte a carico della primogenita Maria che aveva sposato il cugino Vincenzo Ruffo. Grazie alle lentezze burocratiche la principessa Maria Ruffo non pagò il debito e nel 1630 dopo la sua morte, le successe la figlia Giovanna che divenne la principessa più amata dagli antichi scillesi per la sua grande pietà, esimia carità e benevolenza. Il 10 aprile del 1641 Giovanna Ruffo fece costruire a Scilla le sedi di tre ordini religiosi: dei Padri Crociferi nel rione di Chianalea, dei Padri Osservanti e dei Padri Cappuccini nel rione di San Giorgio, oltre un ospedale affianco la chiesa di San Nicola nel rione di Marina Grande. Nel 1650 la principessa Giovanna morì, e le succedeva il figlio Francesco Maria che per la generosità della madre, i suoi beni erano gravati da debiti e il suo lungo governo da feudatario non ebbe molto lustro. Alla morte di Francesco Maria Ruffo avvenuta nel 1704, e non avendo figli, gli succedeva il nipote Guglielmo Ruffo figlio del fratello Tiberio che prese il potere durante la famosa guerra di successione al trono di Spagna, tra gli eserciti di Francia e Austria. Gli austriaci con una marcia trionfale nel 1707 respinsero gli spagnoli dal Regno di Napoli e poi nel 1711 la Sicilia col “Trattato di Utrecht” nel 1713 fu ceduta al Re Vittorio Amedeo di Piemonte.
Nel 1718 le potenze europee avevano formato una lega fra Inghilterra, Austria, Francia e Paesi Bassi chiamata “Quadruplice Alleanza” che fu stipulata il 2 agosto 1718 per contrastare il tentativo spagnolo di assicurarsi il predominio del Mediterraneo e a seguito di ciò, il Regno di Napoli e Sicilia passò all’Austria mentre la Sardegna fu annessa al Piemonte. In tale sconvolgimento il Principe Guglielmo Ruffo cercò di adattarsi ai nuovi padroni che occuparono militarmente il Castello di Scilla, preoccupati di una riscossa degli spagnoli che non tardò ad avverarsi. La Spagna negli anni successivi uscirà dal suo isolamento e con la guerra di successione polacca tra il 1733 e il 1738 riuscì persino a riportare sotto il suo controllo Napoli e la Sicilia. Nel 1748 dopo la morte di Guglielmo Ruffo gli successe come castellano di Scilla il figlio Fulcone Antonio, in concomitanza con la fine dell’epidemia che era iniziata nel marzo del 1743, quando un equipaggio malato di peste era approdato con un mercantile genovese nel porto di Messina, trasmettendo la malattia nei dintorni dello Stretto. Il nuovo principe di Scilla dopo la peste, aumentò le tasse ai commercianti e soprattutto ai padroncini delle feluche che si opposero ai pagamenti ritenuti troppo esosi. La causa era stata presentata dallo scillese Don Antonio Minasi che compilò di suo pugno il ricorso direttamente a Napoli, al Re Ferdinando IV, presso la Regia Camera dove fu richiesta la sospensione delle gravose tasse imposte dal loro feudatario. La battaglia legale era basata sulla richiesta di annullamento delle due gravose “gabelle” del guadagno e del cambio che corrispondeva ad una tassa del 10 % sul guadagno lordo delle imprese. Don Antonio Minasi che a quei tempi era molto vicino al Pontefice Clemente XIV, difese e coinvolse 400 cittadini scillesi e denunciò i 68 reati commessi dal Principe Ruffo di Scilla. Le omissioni, le lungaggini burocratiche, i tradimenti e le vendette non portarono alle giuste rivendicazioni degli scillesi nell’immediato, e le prese di posizioni del Minasi non piacquero al Principe di Scilla Don Fulcone che iniziò ad esercitare delle vessazioni contro coloro che a suo parere si erano ribellati contro di lui. Nel settembre del 1776 infatti, il Principe si adoperò di imporre al suo popolo numerosi atti fiscali, tra i tanti articoli il n° 20 riguardava il pesce spada o lanciato, anche irretito in mari lontani con nuovo strumento chiamato rete “palamatara” o “tonnara volante”. Il Principe con questo nuovo regolamento tentò di esigere una somma che corrispose ad un terzo del pescato, oltre a pretendere personalmente un rotolo di ventresca, dei calli, dei ciuffi, e le parti più nobili del pesce spada. Qualche anno prima, precisamente nel 1773 alla morte del prete di Scilla, Don Diego Tomacelli, il comune di Scilla che allora veniva chiamato “Università”, intendeva nominare Don Domenico Minasi, un prete molto capace e amato degli scillesi. Ma la famiglia Minasi era detestata dal Principe Ruffo, poiché faceva parte dei “Proclamanti”, appartenente a quella classe di cittadini che combattevano a viso aperto le ingiustizie del feudatario. Don Fulcone invece prevaricando sul comune, scelse Don Antonio Fava che faceva parte invece dei “Crocesegnati”, i “tirapiede” del Principe, ma il terremoto della mattina del 5 febbraio del 1783 cambiò tutto il contesto storico. Il Conte Don Fulcone Antonio Ruffo di 81 anni, con 49 dei suoi cortigiani fra i quali suo fratello, il sacerdote Don Carlo Antonio, abate di Sinopoli spaventato dalle prime forti scosse della mattina, cerco di rifugiarsi in un luogo più sicuro. Il crollo della cucina e di altri accessori del Castello, infatti, aveva persuaso il Principe di rifugiarsi nella sua deliziosa tenuta del Parco, sita sul rione di San Giorgio. Ma il crollo del palazzo dei Signori Nizza nel punto più stretto della salita, rese impossibile il passaggio essendo ostruita la strada, poiché il Principe doveva essere trasportato in lettiga.
Per questo motivo Don Antonio Ruffo decise così di mettere le tende in un punto vicino alla Chiesa dello Spirito Santo, dove era stata adibita a urgente ricovero, una barca da pesca costiera in legno di padron Mommo. Gli abitanti dei due rioni litoranei erano i più dichiarati nemici del feudatario, essi lo aborrivano e fieramente lo combattevano, eppure una sventura li aveva riuniti tra loro. In quei supremi momenti gli oppressi si erano avvicinati all’oppressore, e dopo brevissimo tempo una stessa tomba doveva richiudere le ossa di tutti quanti! Infatti nella notte a causa di una altra grande scossa una parte del monte Campallà, in Contrada Pacì franò in mare producendo repentinamente il più grave maremoto della storia di Scilla, dove morirono più di 2.000 persone. Nella lunga lista morirono il Principe Don Fulcone Antonio Ruffo, l’Arciprete Don Antonio Fava vecchio di 81 anni e il suo fratello, il sindaco Dottor Giuseppe Fava, ponendo fine alla tremenda diatriba contro i cittadini scillesi. Come un segno del destino l’Accademia Reale dei Borboni, per esaminare i fenomeni prodotti dal terremoto, inviò diversi scienziati tra cui, padre Antonio Minasi, proprio colui che aveva lottato precedentemente contro l’oppressione dell’ultimo tiranno di Scilla. Dopo la catastrofe del 1783 il Duca Francesco Ruffo, nipote di Antonio, si recò subito a Scilla anche per ricercare il milione d’oro tenuto nel castello fin dai tempi del suo avo Paolo Ruffo, anche se le sue ricerche furono infruttuose. Il Principe Francesco manifestò da subito qualche atto di generosità verso i cittadini colpiti dal terribile evento, offrì infatti 400 “tomoli” di grano (un’antica misura che equivale a 50,5 litri, ossia il volume del grano necessario per seminare una tomolata di terra) al Comune di Scilla ad un prezzo conveniente, per ogni famiglia povera diede 20 tavole per i lavori di casa, fece distribuire giornalmente una porzione di minestra e di biscotto a 60 poveri, diede denari al 5 % a vari cittadini per i loro bisogni dopo aver preso un mutuo al 3 e mezzo %, ventimila ducati dal Banco di Maria del Popolo di Napoli. Nel 1790 era iniziata la Rivoluzione Francese e la conquista di Napoli da parte francese avvenne nel 1806. Tra il 1809 e il 1810 ben 3 commissioni abolivano definitivamente tutti i diritti dei feudatari e la proprietà del Castello Ruffo di Scilla passò al Demanio dello Stato.
FONTI PRIMARIE: dal libro Notizie storiche della città di Scilla del Canonico Giovanni Minasi del 1889 edito da Edizione Parallelo 38 nel 1971 e dal libro “Faraglioni e tempeste” di Enrico Pescatore del 2019 edito Graphic e Business.