Il fastidio di pensare – La realtà dietro i libri

StrettoWeb

Quanto manifestavo le mie obiezioni al green-pass e alla violenza della politica vaccinale, di solito i miei interlocutori credevano di avere di fronte uno dei soliti individui di scarsa cultura e molto influenzabili caduti vittime di una certa propaganda strombazzata da alcuni siti internet in mano a demagoghi livorosi. Quando poi scoprivano che, tra le altre cose, di lauree ne ho invece un paio, allora ecco che improvvisamente il mondo che gli era sempre apparso così sereno e ordinato cominciava a mostrarsi d’un tratto terribilmente privo di punti di riferimento, un po’ come nel Copernico delle Operette Morali: qualcosa di destabilizzante, che va deglutito con calma, ma alla fine bisognerà pur farsene una ragione.

Un uomo che sa leggere e scrivere non fa il vaccino? È la stessa reazione di alcuni amici quando lo scoprono: cominciano a guardarmi di sottecchi, come una persona un po’ strana, e sembra che il mondo per un attimo non stia più al suo posto. “Ma cosa dici, eppure tu sei una persona che ha studiato …” Perché, nella cultura dominante, il ritratto sociale pubblicato dai quotidiani di chi si ribella al vaccino al primo posto mette in risalto una cultura da terza media (direbbero analfabetismo se la cosa non imporrebbe indagini sull’abbandono scolastico). Come dire: solo un ignorante o un imbecille non accetterebbe di fare ciò che noi consigliamo o, a contrario, se hai un po’ di cultura o almeno di intelligenza, è ovvio che sei lì a sgomitare per far sì che il prossimo ago sia per te. E per comprovarlo, quando ci si decide, con abile tocco giornalistico, a dar voce a qualcuno che si ostina a starne fuori, per esempio durante la rivolta triestina, invitano uno che è davvero un povero semianalfabeta, un povero ex pugile un po’ suonato a cui fanno domande di alta cultura e che dopo un po’ a vedere il suo smarrimento ti fa anche tenerezza e gli faresti una carezzina.

L’artificio, in termini tecnici (ma non vorrei spaventare nessuno) si chiama fallacia ad personam. Se magari volessi dimostrare, per esempio, che questi “sporchi negri” – come li chiamavano i razzisti – sono degli “esseri inferiori” mica andrei a prendere qualcuno che fa il cardiochirurgo o ne andrei a cercare uno tra i professori di Harvard; ne raccatto un paio di quelli che fanno la dieta a base di arance nella piana dietro Rosarno o tra quelli che prendono l’ernia al sole ridente del Gargano e poi, paternalisticamente, direi: “Beh, certo, oltre alle arance ogni tanto gli si può anche dare qualche panino con la mortadella, bisogna variare, perché anche loro sono figli di Dio, ma avete pur visto come parlano, l’intelligenza è quella, non ci si può mica aspettare che tra questi verrà fuori il nuovo Stephen Hawking”. Come diceva Shaw, prima gli si fa fare i lustrascarpe, e poi ci si stupisce che non sanno fare altro.

Così, quando la gente scopre che ci sono anche un paio di uomini di cultura che non hanno fatto il vaccino, tutti gli schemi in cui ha vissuto sono distrutti, e bisogna costruirne di nuovi, ma non c’è problema, si rimedia a tutto: adesso la figura di riferimento è Don Ferrante. Don Ferrante, lo dico senza nessuna pretesa d’insegnar nulla, ma solo per riportarlo alla memoria, è nel romanzo italico per eccellenza, I Promessi Sposi, un po’ l’ipostasi dell’intellettuale che non serve a nulla: uomo di cultura vastissima ma sterile, completamente avulsa dalla realtà e che non riesce a conciliarsi con questa (come spesso, mi vien da dire, è la cultura italiana), che quando a Milano impazza la peste appena fuori dalle mura del suo palazzo, poiché non riesce a conciliarla con le categorie aristoteliche finisce con il convincersi addirittura che non esiste e, contagiato infine, ne muore. Ma con una sua dignitas, scrive Manzoni, “come un eroe di Metastasio”: gli intellettuali italiani fanno danni enormi, ma con una certa rispettabilità. (Tralascio qui en passant che nella sua battaglia personale con il mondo di Don Ferrante mi è sempre sembrato un imbecille a prescindere, e gli imbecilli non possono diventare colti per quanti libri leggano, poiché ha passato la vita a studiare Aristotele e non si è accorto nemmeno che nelle categorie aristoteliche la peste si può inquadrare benissimo).

Questa frattura tra un universo affatto cartaceo e una realtà de facto, viva e pulsante, mi ha sempre ricordato, mi si perdoni la banalità dell’episodio, un aneddoto giovanile. Quando ero adolescente erano richiesti per l’iscrizione scolastica diversi certificati, tra cui quello (temo ci voglia ancora) di “esistenza in vita”. E ricordo che un anno, nonostante la richiesta, al tornare a prenderlo dopo un paio di giorni ancora non era pronto. Alle mie rimostranze, preoccupato di rifare la fila borbottai all’impiegato davanti allo sportello: “Ma insomma, mi vedete bene che sono vivo no? Sono qui davanti a voi, vi sto parlando, insomma fatemelo a basta, che senso ha farmi tornare?” e allora l’impiegato, un tranquillo uomo di mezza età, calvo e con una pancia trattenuta a stento dalla cintura, con un dialetto partenalistico mi disse: “Figghiu, u sacciu chi sì vivu, ma si non risulti vivu accà – e mostrò una fila di registri – è comu si non esisti”. Tornai attraversando il corso come vittima di una tragedia cartesiano-pirandelliana: potevo parlare, litigare con la gente, anche ucciderla volendo, ma fino all’acquisizione di quel documento, era come se non esistessi. Chi era adesso il Don Ferrante che si rifiutava di prendere coscienza della realtà? Lo Stato era sempre un passo davanti alla realtà.

In realtà il muro tra realtà e interpretazione della realtà è sempre stato un poco più serio di quanto credono coloro che attaccano con molta facilità etichette da Don Ferrante a chi non corrisponde alle loro aspettative, e richiederebbe qualche riflessione in un paese in cui gli intellettuali si sono sempre dimostrati molto suggestionabili dal potere politico e sono troppi pronti a servirlo al di fuori della riflessione critica. Sciascia diceva che gli intellettuali dovrebbero sempre schierarsi, a prescindere, contro il potere, proprio perché un ruolo critico sono tenuti ad esercitarlo, il che apre a qualche riflessione poiché qualche volta, magari, il potere potrebbe anche avere ragione. Ma qui gli intellettuali dicono che una persona di cultura deve essere proprio fessa a non essere accondiscendente con quelli che il potere ce l’hanno. È previsto, naturalmente, che magari abbiano torto, ma solo a posteriori, quando lo hanno perso.

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