Il passaggio di Ulisse nello Stretto è una delle prove che la ricostruzione classica del percorso dell’Odissea fu ideata nel Mediterraneo

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Le difficoltà e i pericoli, in cui incorrevano le fragili imbarcazioni attraversanti lo Stretto di Messina, esaltarono nel tempo la fantasia degli antichi e dato origine a mitiche leggende

di Enrico Pescatore– La descrizione del “mostro cinto di latranti cani, albergante in oscuro speco”, chiamato Scilla è “la pietrosa”, il nome utilizzato da padre Antonio Minasi per indicare la scogliera sotto la rocca del Castello Ruffo. La leggenda contrappone Scilla, colei che “dilania” a Cariddi colui che “risucchia” e la loro collaborazione creò infatti il “mito” basato sulla pericolosità del posto. I mostri Scilla e Cariddi sono tra le figure mitologiche più apprezzate in tutto il mondo, grazie al poema “l’Odissea” del cantore greco, Omero. Le difficoltà e i pericoli, in cui incorrevano le fragili imbarcazioni attraversanti lo Stretto di Messina, esaltarono nel tempo la fantasia degli antichi e dato origine a mitiche leggende. Il contrapposto Capo Peloro dalla parte siciliana che delimita nettamente l’ingresso dello Stretto di Messina, “alle sue falde assorbe la temuta Cariddi il negro mare” e Virgilio, stavolta nel terzo canto del suo poema “Eneide”, si ispira ancora ai miti omerici nel descrivere le turbolenze marine del posto. Le narrazioni dei pericoli nautici dovettero aver assunto tali proporzioni, da indurre il poeta a consigliare di evitare la traversata dello Stretto, “meglio è con largo indugio e lunga volta girar Pachino e la Trinacria tutta”.
Ma nella nota terzina della Divina Commedia “come fa l’onda là sopra Cariddi che si frange con quella in cui s’intoppa cosi convien che qui la gente riddi”, invece, Dante Alighieri abbandona l’aspetto mitologico e dà una visione reale dei turbolenti movimenti marini che caratterizzano le acque dello Stretto di Messina, focalizzando l’attenzione ai suoi continui ribollimenti, alle sue repentine agitazioni e alle sue alternate fasi delle correnti opposte. L’acqua presenta una specie di bulicame, come se innumerevoli “bolle” sottomarine, distese sopra fasce trasversali, emergessero in superficie. Sui margini di queste zone, larghe macchie, di aspetto oleoso, indicano la presenza di vortici possenti, chiamati “refoli”, i quali danno improvvisi sbandamenti anche a grosse navi che ne rasentassero le parti esterne. Cariddi personifica i refoli e le agitazioni del mare che dominano Punta Peloro, dove pare che in realtà il mare sia assorbito e rigettato con immane violenza.
I grandi studi settecenteschi del già citato, scienziato scillese Padre Antonio Minasi ne danno una prova scientifica, egli indicò addirittura “il percorso onde evitarsi la strage dei navigli”, che produsse successivamente fervide discussioni politiche su questa dolorosa questione. La possibilità di assicurare alle imbarcazioni una protezione nautica con la costruzione dei porti nella parte calabrese e precisamente a Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Scilla, fu la conseguenza dei numerosi naufragi violenti che si susseguirono nella zona. A Scilla infatti, nel 1848 un bastimento genovese, carico di caffè e nel 1886 una nave scuola militare austriaca andarono a fracassarsi contro gli scogli sotto la rupe. Ancora oggi le grandi navi che passano dallo Stretto di Messina utilizzano la “pilotina” che prende il comando della imbarcazione per il breve tratto di mare, per portarla in zona di sicurezza ed evitare “manovre alla Schettino”.
Dopo la costruzione del porto a Scilla, che costò senza motivo l’abbattimento dei maestosi faraglioni, cosa più grave, venne cancellata definitivamente la prova fisica, la classica “pistola fumante”.
Di cosa stiamo parlando? Dell’abbattimento dei faraglioni di Scilla tra il 1899 e il 1908, che rappresentavano senza dubbio “le sei teste di cani latranti ritiratosi in una cavità della scogliera nei pressi di Cariddi”, mozzate definitivamente. Ma per fortuna abbiamo tanti indizi che supportano le nostre tesi: le stupende fotografie di Scilla scattate, intorno al 1890, da Mauro Ledru, uno dei fotografi messinesi più importi dell’epoca, dove compaiono i faraglioni perfettamente integri.
E le grida dei cani latranti? La grotta è in una posizione sopraelevata rispetto a livello del mare di quasi dieci metri e il mare per entrarvi deve essere nelle condizioni di forte agitazione. Le onde incontrando il faraglione posto davanti la grotta nella fase di ritiro del mare riproduceva dei suoni striduli o suoni canini che si sentivano addirittura dallo Stretto, come ci racconta nel 1825 l’artista francese Jules Coignet in “Vedute pittoresche d’Italia disegnate dal vero”. Per informazione la zona dei “sibili” ancora oggi viene chiamata dai pescatori del paese “a ritiragna”. Questo imponente scoglio era il più alto di tutti, arrivava a 40 metri di altezza e si appoggiava davanti la grotta che si può visitare ancora oggi. Infatti dentro nella “dragara”, la mitica grotta dove si nascondeva il “Mostro di Scilla”, sotto il Castello dei “Ruffo”, precisamente lungo la strada che porta dal quartiere di Marina Grande fino al porticciolo e dove è presente dal 1954 la statua della “Madonnina” dello scultore calabrese Alessandro Monteleone. Il passaggio di Ulisse nello Stretto di Messina, rappresenta la prova che la ricostruzione classica del percorso fu ideata nel Mediterraneo ed è a nostro parere la più auspicabile. E anche verosimile che lo stesso Omero divenne cieco soltanto dopo aver eseguito personalmente il viaggio verso l’Italia, data la forte corrispondenza. A tal proposito ci sono delle ricostruzioni differenti. Alcuni studiosi sono anche arrivati ad ipotizzare che Ulisse abbia raggiunto l’Oceano Atlantico o addirittura che tutta la sua vicenda si sia svolta nel Mar Baltico.
Un ulteriore conferma alla nostra tesi è la stampa “Scilla in tempesta”, pubblicata a Napoli nel 1775 da Bernardino Rulli molti anni prima del misfatto e come si potrebbe dire “in tempi non sospetti”. Riprodotta come omaggio dell’artista italiano agli amici inglesi con il testo di padre Antonio Minasi. La famosa stampa era stata incisa in acciaio da Mariano Bova, anch’egli scillese, fratello dell’astronomo e fisico Rocco. Si tratta di una delle iconografie più suggestive di Scilla, ripresa dal mare. Nelle acque in tempesta vengono dipinte alcune navi intente a “schivare gli scogli di qua e di là di Scilla, pieni di morte nera” e soprattutto la “grotta del Mostro” che coincide perfettamente con la nostra ricostruzione. Sia il Rulli che il Minasi parteciparono alla spedizione che partì da Napoli il 5 aprile 1783 insieme ad un gruppo di scienziati, Michele Sarconi, Angiolo Fasano, Nicolò Pacifico, Padre Eliseo della Concezione, Pompeo Schiantarelli e Ignazio Stile. Si trattò della prima organizzazione per studi scientifici in Italia sulle conseguenze di un terremoto. Il terremoto colpì la Calabria e la parte orientale della Sicilia per più di tre anni con diverse scosse, incluse cinque dell’undicesimo grado della scala Mercalli. Morirono oltre 30.000 persone, decine di paesi vennero distrutti, delle montagne collassarono, dei fiumi cambiarono il loro corso creando nuovi laghi e perfino la costa venne ridisegnata. L’anno dopo nel 1784 il resoconto delle loro ricerche venne pubblicato dal Campo Reale Accademia di Napoli.
FONTI PRIMARIE: Dirette e da “Vedute pittoresche d’Italia disegnate dal vero” di Jules Coignet edizioni Sazerac et Duval, Parigi 1825, stampa “Scilla in tempesta” di Bernardino Rulli pubblicata a Napoli nel 1775, foto di Scilla con i faraglioni di Mauro Ledru del 1890 edizioni Fratelli Alinari Firenze, Dal libro “Faraglioni e tempeste di Enrico Pescatore del 2019 edizioni Scilla Graphic & Business

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