Sicilia protagonista agli esami di maturità con Giovanni Verga: l’analisi di “Nedda”, bozzetto siciliano

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Sicilia protagonista agli esami di maturità con Giovanni Verga: scelta l’opera “Nedda”, bozzetto siciliano del 1874

Iniziano gli esami di maturità, l’ultimo step di ogni studente delle scuole superiori che porta alla conclusione del proprio ciclo di studi. Alle ore 8:30, puntuale come sempre, il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato sul proprio sito la chiave elettronica attraverso la quale le scuole hanno potuto decrittare il testo contenente le 7 tracce della prima prova. Sei ore a disposizione e 3 tipologie di elaborati fra le quali scegliere una traccia:

  • analisi e interpretazione del testo letterario
  • analisi e produzione di un testo argomentativo
  • riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Fra le varie tracce della prima prova è presente anche uno fra i più grandi autori siciliani, Giovanni Verga. Fra la grande produzione letteraria dell’autore catanese è stata scelta “Nedda”, bozzetto siciliano pubblicato il 15 giugno del 1874 sulla “Rivista Italiana” e nello stesso anno dall’editore Brigola a Milano. Al maturando viene chiesto di rispondere ad alcune domande, sintetizzare il testo, fare collegamenti e confronti riguardanti il tema degli ‘ultimi’, ricorrente nella letteratura del XIX secolo.

La storia di “Nedda”

La storia narra le vicende di Nedda Di Gaudio, giovane protagonista del bozzetto. Nedda è una ragazza di umili origini che lavora come raccoglitrice di olive per raccogliere il denaro necessario a curare la madre. Dopo la morte della donna, Nedda, disperata, si rifugia nell’amore che prova per Janu, contadino che lavora con lei. Il ragazzo, ammalatosi di febbre malarica, un giorno cade dall’albero e perde la vita, gettando Nedda (incinta) nello sconforto. La ragazza resta sola, aiutata solo dallo zio Giovanni, ma bersagliata dalle malelingue delle gente. Nedda dà alla luce la sua bambina, che però muore poco dopo essere venuta al mondo, perchè la ragazza non è in grado di allattarla. Una morte per la quale la giovane protagonista ringrazia la Madonna: la neonata non dovrà sopportare le sofferenze della vita.

Il significato di “Nedda”

L’opera riprende alcuni capisaldi della letteratura tanto cari a Giovanni Verga. È una storia che parla di povertà, miseria, degli umili, degli ultimi. Nedda è una giovane ragazza, una “rassegnata” alla vita e alla propria condizione sociale, è nata con quel posto preciso nel mondo e sa di non poter scappare da esso. Lavora duramente per un fine nobile, curare la madre, ma per quanto si sforzi, il fato beffardo non le tende la mano. Neanche l’amore rappresenta un luogo sicuro in cui restare al riparo dalle brutture del mondo. Janu aiuta la protagonista a cercare lavoro di fattoria in fattoria, ma poi, già provato dalla febbre malarica, è vittima di un incidente e muore. Una delle tante morti sul lavoro, nelle campagne, in condizioni difficili, che non farà notizia.

Nedda resta sola, con una bimba nella pancia. Quello che dovrebbe essere un lieto evento si trasforma in un’ulteriore pena: una bimba già condannata a nascere senza padre, in condizioni di stenti e povertà. La madre non riesce a provvedere al sostentamento della piccola che, nata “rachitica e stenta“, morirà poco dopo. La morte finisce per essere, in un particolare ossimoro, la cosa migliore che possa capitare nella vita degli ultimi. Il climax del pessimismo verghiano, senza possibilità di miglioramento o elevazione economica e sociale della propria vita, trova proprio nella fine della vita la fine anche delle proprie pene. In questo caso, Nedda ringrazia la Madonna per aver concesso alla figlia neonata di non vivere ciò che ha vissuto lei stessa: “oh, benedetta voi, Vergine Santa! – esclamò – che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!“.

Il testo di “Nedda”

“Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana.

I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione.

Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi1 inferiori al còmpito dell’uomo.

La vendemmia, la messe , la raccolta delle olive, per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre.

L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle roccie infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. [ …].

Tre giorni dopo [Nedda] udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio3 a quel modo. – Il cuore te lo diceva – mormorava con un triste sorriso. – Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. Il domani egli morì. [ …].

Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola , al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido.

Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame.

Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al 56 cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota”.

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