Il referendum sulla giustizia: 5 quesiti delicatissimi e un dibattito sottotono

StrettoWeb

di Antonino Mazza Laboccetta* Pochi giorni ci separano ormai dalle elezioni amministrative del 12 giugno. Appuntamento importante anche per sondare il peso dei partiti in vista delle elezioni politiche dell’anno venturo. Ma è importante pure per un’altra ragione: nella stessa giornata si voterà per i referendum sulla giustizia. Sono addirittura cinque i referendum ammessi dalla Corte costituzionale. Eppure non si registra un gran dibattito sull’evento, che anzi sembra svolgersi sottotono. E l’opinione pubblica ha, di conseguenza, scarsa conoscenza non solo dei contenuti, ma degli stessi quesiti referendari, che però riguardano aspetti di non scarso rilievo suscettibili di incidere profondamente sul sistema-giustizia.

I quesiti

Il primo dei quesiti è relativo all’abolizione del “decreto Severino” (decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235). Il decreto stabilisce l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali in caso di condanna. Le disposizioni hanno valore retroattivo e prevedono, anche a nomina avvenuta, la sospensione dalla carica fino a 18 mesi benché la condanna in primo grado non definitiva intervenga dopo la nomina. Il “sì” all’abrogazione del decreto cancellerebbe l’automatismo della sospensione, restituendo ai giudici il potere di applicare o meno l’interdizione.

Il secondo quesito è diretto a porre limiti all’uso della custodia cautelare, restringendola, in caso di pericolo di reiterazione del reato, alle ipotesi più gravi.

Il terzo quesito, molto articolato, è inteso a separare la carriera del requirente (la pubblica accusa) da quella del giudicante, non limitandosi, quindi, a mettere soltanto dei limiti al passaggio di funzioni.

Il quarto quesito mira a consentire che alla valutazione della professionalità e della competenza dei magistrati, operata dal Consiglio superiore della magistratura anche sulla base delle valutazioni dei Consigli giudiziari, concorrano professori universitari e avvocati. Questi ultimi, che pure compongono, quali membri non togati, i Consigli giudiziari, non partecipano però alla discussione e alle valutazioni relative alla professionalità e alla competenza dei magistrati. Si tratterebbe, secondo i promotori del referendum, di una disciplina non coerente con la disposizione costituzionale che, proprio al fine di scongiurare l’autoreferenzialità della magistratura, prevede che l’organo di autogoverno (il Consiglio superiore della magistratura) sia integrato nella sua composizione da membri non togati.

Infine, il “sì” all’ultimo quesito, diretto a eliminare o quanto meno mitigare il peso delle correnti, produrrebbe l’effetto di abrogare l’obbligo per un magistrato che voglia candidarsi al Consiglio superiore della magistratura) di trovare da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura.

Il referendum: uno strumento delicato

Va subito premesso che il referendum abrogativo è strumento molto delicato. È vero che dà voce al popolo, coinvolgendolo in maniera diretta nelle decisioni politiche. È vero pure che ha superato il vaglio dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione. E poi la Corte costituzionale ha effettuato il giudizio di ammissibilità che, secondo un’ormai consolidata giurisprudenza, va ben al dà dei limiti espliciti (e troppo ristretti) previsti dal comma 2 dell’art. 75 Cost., per investire il quesito referendario nella sua portata sistematica e ordinamentale al fine di verificare se esso si possa realmente caratterizzare come “referendum popolare” e se gli atti che ne formano oggetto possano dirsi rientranti nell’ambito delle leggi costituzionalmente suscettibili di essere abrogate dal corpo elettorale: “esistono in effetti – così la giurisprudenza – valori di ordine costituzionale riferibili alle strutture o ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum al di là della lettera dell’art. 75, secondo comma, Cost.”. Donde le ragioni di inammissibilità che, oltre a quelle legate ai limiti espliciti stabiliti dall’art. 75 Cost., sono d’ostacolo i) alle richieste referendarie contenenti una pluralità di domande eterogenee, prive di una matrice unitaria, tale da non poter ricondurre il quesito alla ratio della stessa previsione costituzionale del referendum abrogativo; ii) alle richieste referendarie che surrettiziamente mirano ad incidere sulla Costituzione, sulle leggi di revisione costituzionale o sulle altre leggi costituzionali; iii) alle richieste referendarie suscettibili di incidere sul contenuto costituzionalmente vincolato di disposizioni legislative ordinarie.

Non ci possiamo soffermare sulle ragioni tecniche che in generale sono alla base del giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie. È un fatto, però, che la Consulta ha ritenuto ammissibili i cinque quesiti. Ciò nondimeno, al di là del giudizio espresso dalla Corte costituzionale, è evidente come i quesiti referendari su cui il 12 giugno il popolo è chiamato a pronunciarsi sono di tale complessità da richiedere all’opinione pubblica un grado di consapevolezza adeguato. In generale, e a prescindere dalla tornata del 12 giugno, alcune istanze referendarie, per quanto ammissibili, andrebbero maturate nelle aule parlamentari e, in ogni caso, affrontate senza emotività.

Un rapporto tormentato

Soprattutto dopo la rivoluzione di “Tangentopoli” il rapporto tra magistratura e politica si è fatto tormentato. L’appoggio popolare e l’entusiasmo che inizialmente la magistratura nel suo complesso ha suscitato in larghissimi strati dell’opinione pubblica hanno lentamente lasciato il posto a qualche delusione e ad un calo di fiducia. Si è fatta strada l’opinione di chi ritiene che la magistratura abbia svolto e continui a svolgere ora un ruolo di supplenza ora un’indebita ingerenza rispetto al potere politico-amministrativo.

In buona parte il ruolo di supplenza le deriva da una legislazione caotica, disordinata, di difficile interpretazione, effetto in non pochi casi di logiche politiche compromissorie che inevitabilmente incidono sulla qualità della tecnica e della regolazione legislative. L’ingerenza è, invece, legata al fatto che l’utilizzo di mezzi investigativi e cautelari nella fase delle indagini produce purtroppo effetti sulle libertà (personali ed economiche) delle persone e sulle loro attività. Se queste attività sono politico-amministrative, sono inevitabili – direi: sono nelle cose – gli effetti che incidono su un potere “altro” rispetto al potere giurisdizionale. Di qui la lamentata ingerenza del potere giurisdizionale rispetto al potere politico-amministrativo, tanto più intollerabile, secondo autorevoli opinioni, quanto più l’uso dei mezzi investigativi si riveli alla prova dei fatti abusato e l’obbligatorietà dell’azione penale concretamente disattesa.

Il disegno che prefigura il quesito referendario relativo alla separazione delle carriere tra organo requirente e organo giudicante è diretto a strappare all’albero della giurisdizione il pubblico ministero. Il pubblico ministero è “parte” nel processo, ma, secondo un felice ossimoro, è “parte imparziale”: l’art. 358 c.p.p. gli impone, non a caso, di svolgere anche “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Pur mantenendo la sua attività natura investigativa in quanto organo di azione, cioè parte, il pubblico ministero è però parte “pubblica”. Il suo legame con la giurisdizione non gli vale il potere di ius dicere, che è prerogativa del giudice, ma costituisce garanzia per il cittadino. Il disegno di strappare il pubblico ministero alla giurisdizione potrebbe portare, sul piano ordinamentale, alla sua subordinazione al potere politico-amministrativo o, comunque, ad accentuare il suo ruolo di mero accusatore. È un esito niente affatto non auspicabile, sempre che il pubblico ministero, con rigore ed equilibrio, utilizzi i mezzi investigativi e i poteri cautelari secondo i canoni fondamentali della ragionevolezza e della proporzionalità, che si esprimono i) nell’idoneità della misura (pesata sulla base del rapporto tra il mezzo impiegato e il fine che si intende perseguire); ii) nella necessarietà della misura (che esprime la conformità del mezzo rispetto alla “regola del mezzo più mite”); iii) nell’adeguatezza della misura (che segna il limite quantitativo strettamente legato al principio di necessarietà).

L’emotività dell’elettorato

A muovere l’emotività di chi vota sono (anche) le ampie assoluzioni successive ad interminabili calvari costellati dall’utilizzo di mezzi investigativi che piegano le persone, ma anche il corso dei sistemi politici e dell’azione amministrativa. Quello che ai tecnici può apparire fisiologico, agli occhi dei più è una sicura disfunzione del sistema. Allo stesso modo, appare una disfunzione l’utilizzo mediatico e senza contraddittorio di ipotesi investigative percepite come sentenze definitive, e da certa stampa recepite acriticamente e senza controllo e in qualche caso diffuse senza continenza. Un principio, questo, che impone al cronista di non eccedere lo scopo meramente informativo della notizia.

Non sappiamo se si raggiungerà il quorum e, in caso positivo, quale sarà il destino delle richieste referendarie. Certo è che si tratta di una materia molto delicata, perché segnala un malessere diffuso e per molti versi reale, che avrebbe avuto bisogno di una serena e ben attrezzata ponderazione.

* Antonino Mazza Laboccetta, Professore di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria

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