Il fastidio di pensare – Questioni di semantica

StrettoWeb

Quando ero piccolo e qualcosa non funzionava, dall’acqua che improvvisamente smetteva d’uscire dal rubinetto a qualche improvvisa voragine apertasi nella strada, l’espressione d’obbligo che si sentiva ripetere nel mondo dei grandi era (traduco dalla mia infanzia culturale siculo-calabra): “E che siamo nel terzo mondo? (o in Africa, che nel loro universo si identificavano)”. E c’era, in questa affermazione, nonostante quella identificazione en passant, da un lato la coscienza snobistica, pur con tutti i nostri cerotti, di appartenere nonostante tutto a qualcosa di diverso e di superiore, e proprio per questo dall’altro lato, nello stesso tempo, la tacita e crudele consolazione dei disgraziati di riuscire a sorridere e a sentirsi meglio quando vedono che c’è qualcuno che sta ancora peggio di loro. E quindi la funzione informativa, ma in realtà anche a suo modo esorcizzante della televisione circoscrivere tutto lo sozzume dentro uno scatolo e di poterlo annullare con un semplice gesto: con le immagini che venivano di volta in volta dal Biafra, dal Mozambico e dai vari guaiti del mondo che la Rai di volta in volta selezionava, e con la coscienza di essere comunque qualcosa d’altro e di poter chiudere quando ci se ne è saziati e di riprendere la propria vita e ricominciare a pensare alle proprie miserie quotidiane.

Poi però negli ultimi trent’anni e più, per quell’umano desiderio che deve essere concesso a tutti i popoli di potersi migliorare, anche nel terzo mondo hanno cominciato qualcosa a tirarla fuori. Lungi dal risolvere i loro problemi, naturalmente, ma adesso nel Mozambico, in Guinea, nella Costa d’Avorio qualche città ha cominciato ad esserci e si tratta di città ordinate, con bei palazzi e belle architetture. Non che tutti ci vivano bene, naturalmente: una immigrazione selvaggia crea continuamente nuovi ghetti, ma ogni New York ha il suo Bronx. E quindi adesso bisogna stare più attenti con i paragoni, bisogna essere, per così dire, più attenti alle sfumature, altrimenti si rischia di offendere il lavoro di decenni di questi Stati che stanno lottando, se non con grandi risultati almeno con grandi sacrifici, per creare una immagine molto più dignitosa di sé mentre noi siamo rimasti fermi. Quando, per esempio, c’è una fossa di un metro di profondità davanti casa mia da ormai più di un mese nella patetica speranza che qualcuno prima o poi venga a ricoprirla non è più concesso dire “Neanche nel terzo mondo” ma, più specificamente “Neanche alla periferia di San Pedro Sula (quella dove ormai non entra più neanche la polizia, ma direttamente l’esercito, di tanto in tanto)” e quando una gentile signora lacrimevole c’è finita dentro con una ruota e tre persone con fatica e buona volontà le hanno tirato fuori la macchina non diremo più “E che siamo in Africa?” ma, più correttamente “E che siamo, alla periferia di Maputo (perché il centro di quella città ormai è tutto asfaltato)?”. Questo per adesso, senza contare la nostra di periferia, nel senso che, appunto, è il centro nostro che assomiglia nel paragone alla periferia del terzo mondo. Se poi continuiamo a stare fermi o a regredire un altro poco, stiamo sicuri che tra qualche decennio ancora anche le loro periferie ce le sogniamo. Ma per ora, fino a che devono smaltire tutta la loro miseria arretrata possiamo continuare a campare di rendita: possiamo continuare a non fare niente e a sentirci ancora superiori a un angolano a un congolese e dire: “Sì, da noi le buche per le strade durano mesi, il piastrellato sul marciapiedi è tutto saltato, un povero disgraziato sulla sedia a rotelle non può camminare perché è già qualcosa che ci cammina uno a piedi sul marciapiedi, ma tu chi sei per parlarmi così che i tuoi vivevano nella savana? Le critiche le accetto solo da un londinese upper class purosangue?”. In questa corsa al massacro saremo vincitori ancora per qualche decennio, poi si vedrà. Certo, fino a che le elezioni presenteranno protagonisti come quelli dell’ultima tornata elettorale, in Africa avranno tutti il tempo di raggiungerci e di superarci, e poi i confronti li potremo fare solo fra di noi. Uno della via X dirà per esempio: “E che siamo, nel rione Y?” e quell’altro risponderà “Questa cose accadono solo nella via Z”, fino a che non ci guarderemo in faccia e scopriremo che è una lotta tra tapini. Giro questa avveniristica prospettiva all’amministrazione.

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