Il fastidio di pensare – La terra approssimativa

StrettoWeb

L’ultima volta che incontrai la dottoressa Bonomi, la vecchia soprintendente del museo, fu per raccontarle un fatto singolare di cui ero stato protagonista nell’illustre edificio. Ci ero andato una tarda mattinata a incontrare un’amica e vidi in una delle sale terrene una mostra di ceramiche artigianali, che scoprii poi d’essere d’un impiegato che poi a certi avventori che si mostravano interessati ne proponeva l’acquisto e, se andava bene, le staccava dalla parete e si metteva veloce i soldi in tasca. Quando mi avvicinai e mi finsi interessato chiese anche a me se me ne interessava qualcuna e quando gli dissi infine che quelle cose non erano molto corrette dapprima mutando improvvisamente espressione del volto mi mandò a fanculo ma quando gli dissi che ero un giornalista e che non solo era un delinquente ma che anche come delinquente era una mezza tacca perché nel suo pressappochismo se invece di me si fosse trovato uno de “le Iene” o di “Striscia la Notizia” il suo impiego là dentro avrebbe passato guai molto seri, allora il suo viso assunse un sorriso ipocrita, mi mise il braccio attorno alla spalla come si fa tra vecchi amici e con atteggiamento fraterno mi disse “Iamu ‘mpari, ‘sti cosi ntra nui” chiedendomi di dimenticare tutto. Anche se scelsi di non denunciarlo, mi consultai con Daniele Castrizio e decisi di raccontare l’ameno episodio a Simonetta Bonomi. La incontrai una sera tarda, quando le porte degli altri uffici erano ormai chiuse e solo la sua stanza aveva ancora la luce accesa, e parlammo quasi un’ora in mezzo a un greve odore di fumo di sigaretta e il suo tipico accento veneto. Pensavo che la storia l’avrebbe fatta trasalire, ma non la sorprese più di tanto. A dire il vero aveva ben altro a cui pensare: un fotografo, a cui aveva permesso di riprendere i Bronzi, aveva poi vestito i simboli della virilità greca come delle checche, e Sgarbi, in una delle sue crisi da mancanza d’attenzione, s’era inventato di trascinare le due statue all’expo milanese, e il mondo intellettuale nazionale invece di considerare la cosa che andava ripetendo solo come una amena imbecillità aveva cominciato a discuterne seriamente e il Corriere della Sera ci aveva costruito sopra anche un dibattito. Alla fine, tra una sigaretta e l’altra, la dottoressa mi confidò, quasi sfogandosi: “Quando mi proposero la direzione di questo Museo ero entusiasta, era uno dei musei più importanti d’Italia, e venni a Reggio pensando di cambiare solo città, mentre in realtà stavo cambiando una intera dimensione. Nel Veneto, quando chiedevo una cosa, il giorno dopo era sulla mia scrivania, qui la devo chiedere e richiedere, e poi quasi implorare. All’inizio pensavo ce la avessero con me che qui ero quasi un’estranea. Ma poi ho capito che questo modo di vivere approssimativo è un modo di essere della cultura del territorio”.

Ecco, di queste cose te ne puoi accorgere solo quando il territorio lo osservi dal di fuori, magari se ci sei vissuto per un po’ lontano, ma guai a starci troppo dentro, perché è un mondo che ha un terribile potere assorbente e alla fine tutto qui comincia anche a sembrarti normale. Già il paesaggio sembra dirtelo. Quando ho lasciato l’ultima volta la stazione di Santa Maria Novella dapprima ho visto scorrermi davanti il paesaggio toscano, che è grazioso e ordinato e quasi stucchevole nella sua bellezza da cartolina poi, a poco a poco, scendendo verso il Sud, si sostituisce quello meridionale, sempre più nella sua bellezza violentata e offuscata da come potrebbe essere se non fosse stata sporcata in qualche modo e, infine, sempre più approssimativo, quando giungi in Calabria ti trovi innanzi un mondo incompiuto, con le sue case da completare, con i mattoni che si contano sulle facciate e i suoi scheletri di edifici e le sue terrazze con i ferri sporgenti. Un mondo sempre iniziato e non finito, con le sue buche da asfaltare e le leggi da obbedire, ma sempre fino a un certo punto, in maniera approssimativa, perché qui le cose non vanno mai prese troppo sul serio, in maniera completa. Ma il dramma più grande, credo, è che la popolazione sia in qualche modo innamorata di questa sua miseria. Crede cioè che rispettare troppo le leggi sia deumanizzante e questa anarchia ne metta invece in mostra un lato a misura d’uomo. E così c’è, nel nostro vivere sociale, un lato come vorrebbe la legge, e un lato alla calabrese, dove tutto si aggiusta con una strizzata d’occhio e siamo tutti più contenti. Al nord tutto gira più veloce, si dice, ma questo girare poi finisce con il travolgere ogni cosa: siamo davvero sicuri che sia questo il modo migliore di vivere? E non ci rendiamo conto che se le città calabresi sono all’ultimo posto come qualità di vita forse è proprio perché magari alle regole si dovrebbe anche ubbidire. Ma, forse, è meglio che comincino gli altri. E infine tutto questo si trasferisce nel suo lessico. Quel “tu non sai chi sono io” che arricchisce di tanto in tanto le conversazioni e che indica che, in una terra dove la legge si dissolve, gli arbitrati di chi fa i propri comodi si risolvono spavaldamente con le amicizie e valutando il proprio posto sulla piramide sociale. L’ultima volta me la aveva detta un tirapiedi per alcune cose che mi ero permesso di scrivere, ma se non altro lui faceva il suo mestiere. Adesso me la sento, tanto per ricordarmi dove sono, tra le mura insigni di un edificio scolastico. Il mondo calabro si evolve e acquista nuovi spazi, e mi viene in mente l’amarezza dell’ultimo Sciascia che all’inizio aveva creduto che la cultura avrebbe liberato la Sicilia e poi capì che invece a lasciarlo fare sarebbe stato il Sud a deturpare tutto il resto.

Condividi