La guerra di Putin e il terzo mandato ricevuto da XI Jinping hanno risvegliato in Italia e nel mondo il problema delle autocrazie, ormai diventate sul nostro pianeta più numerose delle democrazie. All’indomani del secondo conflitto mondiale, con la memoria ancora viva della grande carneficina che si era registrata tra le nazioni belligeranti – la sola Unione sovietica aveva lasciato sul proprio suolo, tra militari e civili 20 milioni di morti – molti Paesi guardarono con crescente favore alle democrazie, che avevano sconfitto il nazifascismo. Oggi quella tendenza è andata via via spegnendosi. Meglio, appare invertita. Alcuni decenni fa nelle piazze, nelle sezioni dei partiti, ma anche nei bar e finanche nei salotti delle cas e del tempo, spesso la discussione scivolava sul tema della libertà che veniva sistematicamente contrapposta a quello dell’uguaglianza. L’ideologia, ancora fiammeggiante in quella stagione politica, la faceva da padrona. Ricordo che, per troncare la discussione, qualcuno che parteggiava per la libertà, tirava fuori la posizione culturale, decisiva all’epoca sul tema, di Karl Popper, maturata dopo il suo clamoroso rifiuto del marxismo. Il filosofo austriaco si limitava ad affermare concetti semplici che su molti giovani del tempo facevano presa. Argomentava drastico che “La libertà è più importante dell’uguaglianza; che il tentativo di instaurare l’uguaglianza mette la libertà in pericolo; e che sacrificando la libertà, non si riesce neppure a fare regnare l’uguaglianza tra coloro che sono stati asserviti”. In questi interminabili mesi trascorsi dallo scoppio della guerra scatenata da Putin tutto l’Occidente, anche quello che non si è espresso, si è trovato di fronte ad un’aggressione fuori del tempo. D’altra parte, si sa, il sistema politico costruito in Russia da Putin non è un modello che si fa ammirare nel mondo. Nella Russia è vietato il dissenso, la magistratura è asservita ai voleri del capo. Al quale la vendita delle risorse energetiche conferisce un potere economico immenso che l’autocrate utilizza a proprio esclusivo piacimento. Un potere di corruzione e di controllo molecolare del Paese. Se si esclude infatti il consenso di una certa classe dirigente ad una ideologia storica di potenza, tutto il resto è appunto filtrato dalle risorse economiche di cui Putin dispone. Più o meno lo stesso clima si respira in Cina: Forse con un più raffinato ma ancora più opaco utilizzo del potere. La scena del licenziamento in tronco, da parte di Xi Jinping, di uno dei suoi più stretti collaboratori, avvenuto in presa diretta al cospetto del mondo, ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tutti.
Di fronte ad uno scenario siffatto chi è abituato a vivere in libertà avverte sulla schiena un doppio brivido. Il primo ovviamente proviene dall’osservazione impietosa di tali regimi, ma un secondo brivido proviene dall’osservazione, altrettanto impietosa, dello scadimento, anno dopo anno, della democrazia in alcuni Paesi che l’avevano rappresentata per lunghi decenni in forma smagliante. Penso all’America verso cui, pur riconoscendo alcune grandi disuguaglianze, ingiustizie e violenze che in quel Paese appaiono abbastanza diffuse, abbiamo nutrito in Europa e in particolare in Italia un sentimento di gratitudine e di ammirazione. La gratitudine scaturiva da un fatto storico incontrovertibile. Era stata l’America a salvarci prima dall’orrore nazifascista e in un secondo momento attraverso l’assegnazione del piano Marshall, che nelle mani di un uomo probo e lungimirante come De Gasperi aveva trasformato in pochi anni l’Italia da misero paese contadino in Paese industrializzato e moderno. Accanto alla gratitudine, accennavo poc’anzi, si è instillato nella maggioranza degli italiani anche un sentimento di ammirazione per tutto quello che gli Stati Uniti rappresentano sul piano finanziario, militare, tecnologico e scientifico. Esiste poi un altro aspetto attraente dell’America che noi italiani avvertiamo in forma particolare: la magia dei simboli. Mi riferisco prima di tutto a quella democrazia limpida costruita prevalentemente sulla forza dei contrappesi, capaci di controllare con rigore il potere e le sue procedure. Ma l’attrazione non si ferma qui. Gli italiani, aiutati dalla memoria, ammirano quella fiaccola che arde in cima alla Statua della libertà e quell’iscrizione situata un poco più sotto, rimasta indelebilmente scolpita nella mente di tanti emigranti: “…..manda a me i senza casa, sballottati dalla tempesta: io alzo la mia lampada accanto alla porta d’oro”. Tra il 1890 e il 1915 furono quattro milioni i nostri connazionali ammaliati da quella fiaccola. Ancora. Gli italiani ammirano quella “Città sulla collina” che per gli americani rappresenta il luogo immaginario delle proprie virtù rispetto ai vizi del resto del mondo.
Ma è ancora così? Quella democrazia è rimasta nei fatti ancora oggi integra? Alcuni fatti di questi ultimi anni e gli ultimi sondaggi ci dicono che purtroppo non è più così. L’assalto del 6 gennaio del 1921 a Capitol Hill ha rappresentato un’incancellabile profanazione, il fatto che Trump sia riuscito a convincere una buona parte degli americani che le elezioni del 2020 sono state truccate e la Casa Bianca usurpata, l’assalto a colpi di martello nella casa di Nancy Pelosi, il fatto che nella sola Pennsylvania – come ci ricordano le cronache degli ultimi giorni, – “50 capi degli uffici elettorali di 67 contee si sono dimessi per le minacce ricevute”, tutte queste cose insieme ci ricordano dolorosamente che forse la democrazia in America, che sembrava così salda e carica di fascino, ha fatto il suo tempo.