La scuola in Italia, il significato di “merito”

Ma “merito”, questa parola magica, rappresenta davvero, com’è stato detto da più parti, un attacco alla scuola dell’uguaglianza?

StrettoWeb

L’avere di recente aggiunto “e del merito” alla dizione del ministero dell’Istruzione ha acceso un dibattito intenso tra uomini di cultura del nostro Paese. Ma “merito”, questa parola magica, rappresenta davvero, com’è stato detto da più parti, un attacco alla scuola dell’uguaglianza? Ricordo a tale proposito che nella nostra Costituzione al terzo comma dell’articolo 34, in questi giorni evocato più volte, si legge: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. In quella mitica stagione postbellica, non comparabile con nessun altro periodo della storia dell’Italia unita, il diritto allo studio e al riconoscimento del merito rappresentò una rivoluzione. Per la prima volta i ragazzi provenienti dalle classi umili, infrangendo regole non scritte ma cristallizzate dalla statica realtà sociale del tempo, potevano andare a scuola. Una democrazia nuova irrompeva nella società italiana trascinandosi dietro una ventata d’aria fresca. Il figlio del contadino per la prima volta azzerava di fatto la differenza sociale, che rappresentava un giogo tramandato nelle famiglie povere dagli stessi genitori, imponendo una nuova gerarchia di valori, non più basata sul censo ma sul vigore dell’intelligenza. Di più. La scuola rappresentava, per un ragazzo di quel tempo, una quotidiana scoperta che stimolava le avventure della mente e insieme proponeva tra gli studenti una straordinaria competizione che preparava alle sfide della vita. Fin dalle elementari esisteva lo studio, che dico, il culto della memoria, destinato a esplodere alla scuola media, dove si mandavano a memoria lunghi brani dell’Iliade e dell’Odissea. Ci si schierava a favore di Achille o di Ettore. La maggioranza faceva il tifo per Achille, mentre una sparuta ma felice minoranza adorava Ettore. Per non parlare del tema in classe. Un vero e proprio rito che raggiungeva il suo culmine qualche giorno dopo, quando l’insegnante, in un silenzio attonito, illustrava i temi corretti con il relativo voto ed il relativo giudizio. Lo studio era all’epoca severo per gli studenti, come lo era stato per gli insegnanti che avevano superato concorsi difficili prima di salire in cattedra.

Tra il professore e lo studente si stabiliva una tacita intesa per cui il primo riusciva a trasmettere alla sua classe il sapere, ma riusciva ad inculcare anche il valore dei sentimenti perché, come afferma il professor Umberto Galimberti, “la mente degli allievi non si apre se prima non si è aperto il cuore”. Si costruiva dunque in definitiva un’educazione sentimentale che si depositava per tutta la vita nel fondo della memoria, da cui lo studente, crescendo, di tanto in tanto compiaciuto attingeva un brandello.

Veniamo ai nostri giorni.

Tra la scuola di oggi e quella di ieri c’è una differenza abissale. Un elemento, questo, come si può intuire, non di poco conto perché dalla scuola esce la classe dirigente che dovrà in futuro guidare, nelle varie branche del sapere, il Paese. Sono tanti gli elementi alla base di questa decadenza. Ne ricordo solo qualcuno. La scuola ha perso la sua severità. Può sembrare strano ma si tratta di una perdita grave. Si punta a promuovere tutti e magari con buoni voti. Gli esami di riparazione sono stati aboliti, sicché la scuola diventa di anno in anno una piacevole scampagnata senza fremiti. Solo che successivamente, addentrandosi lo studente negli studi superiori, le sue carenze, accumulate negli anni precedenti, esplodono. Gli insegnanti, pagati poco, si avvalgono di graduatorie che rappresentano quasi sempre un semplice sbocco occupazionale. In questa veste precaria finiscono per fare riferimento, più che al preside, ai propri agguerriti sindacati. Per una missione così delicata la vocazione, che era il cardine della scuola di un tempo, si è come volatilizzata. Certo esistono anche oggi insegnanti di qualità. Io stesso – se posso fare un riferimento personale – ne ho incontrato alcuni nella scuola che frequentano i miei nipoti, ma sono una minoranza.

Resta un fatto. Le ricerche Invalsi offrono un quadro deprimente della situazione generale della scuola in Italia. In Calabria, ma in genere in tutto il Sud, un bambino su due fa fatica a comprendere un testo scritto.

Mi viene in mente, per contrasto, un saggio di George Steiner, letto anni fa, sulla scuola francese. In questo Paese “Il bambino” scrive il grande intellettuale “deve cogliere il primato determinante della lingua nel definire e sostenere il destino de la nation”. E più avanti aggiunge “In Francia si stabilisce una continuità diretta tra scuola e nazione”. Avete letto bene “tra scuola e nazione”. Un confronto desolante con la realtà del nostro Paese.

Condividi