Il fastidio di pensare – Chi può e chi non può

StrettoWeb

Aboubakar Soumahoro rappresenta l’ultimo esponente di una sinistra allo sbando che, avendo da tempo abbandonato i rigidi schemi selettivi di una scuola di partito e del mondo culturale, sceglie oramai i suoi esponenti non per quello che sono ma per quello che rappresentano a livello di immagine, raccattandoli tra quelli messi in mostra dai riflettori nel mondo del network e le pagine patinate di un giornalismo di massa. Proseguendo un po’ in questo quella smania che era stata del Partito Radicale che andava cercando i suoi candidati con il sottile desiderio di scandalizzare l’uomo comune, e desideroso di riempirne più gli occhi e la pancia che la mente. Elevatosi a partito che difende i diritti delle minoranze, e sostenendo anzi che queste non avrebbe altro al di fuori, ma poi mettendo dietro quei diritti non alti esponenti del pensiero ma figure che, in un mondo fatuo dell’immagine e della parola come il nostro soprattutto in questo si sono sapute distinguere. Così almeno da essere coperti se non a livello di contenuto almeno a livello di coscienza, sì da poter dire: “e chi più di noi si batte per i diritti delle minoranze? Guardate come abbondano nelle nostre liste trans, neri (guai a dir “negri”), maltrattati d’ogni genere … trovereste lo stesso altrove?”.

Anche se crediamo quindi che moltissimo della sua candidatura sia dovuta al colore della pelle, che ha inciso molto a livello di immagine e mancava ancora in questa panoplia da mettere in mostra, in questa sceneggiata Sumahoro si è sdebitato recitando molto bene la sua parte, presentandosi già il primo giorno nell’aula parlamentare con un paio di stivali infangati volendo mostrarsi come il rappresentante dei derelitti che lavorano nei campi. Poi, dopo la messa in scena di rito è tornato nella sua villa, si è tolto il tutto e si è immerso in mezzo a quanto di meglio i soldi possono comprare. L’inchiesta sulla moglie lo ha colto di sorpresa e ha messo a nudo la rivedibilità della scelta. Il problema, non ci vuol molto a capirlo, non è l’inchiesta, che semmai è servita a mettere in luce la pochezza del personaggio (ma basterebbe perdere una decina di minuti con ogni altro deputato di cui conosciamo solo il nome per capire la qualità dell’emiciclo parlamentare). Chi abbia perso qualche minuto ad ascoltare la sua difesa piagnucolosa in stile zio Tom si sarà fatto un’idea di quali mani difendono un problema così serio come quello dei braccianti immigrati in questo sventurato paese, dove chi ha il coraggio di salire su un palco alla fine riesce pure a crearsi una carriera politica. Ma il problema sono certe sue idee che ha poi ribadito con una certa convinzione, come il diritto all’eleganza, con cui giustifica candidamente anni di spese gigantesche di congiunti che gli vivono accanto la cui attività quest’uomo – che dovrebbe indagare per mestiere un mondo di lavoro sommerso –  afferma innocentemente di ignorare. Naturalmente si tratta di una sciocchezza. Nessuno Stato potrà mai togliere il senso dell’eleganza, come nessuno potrà mai sostenere quello del lusso. Tra le due cose c’è una differenza essenziale. L’eleganza, è una qualità che ci portiamo dentro e per cui non è necessario spendere; alla base del lusso c’è un fondamento sociale: uso questi oggetti per dimostrare che posso permettermi di farlo, che vivo da questo lato del mondo. È una questione economica e che rimarca una differenza di classe, e che può avere anche, naturalmente, un fattore estetico, ma solo come fattore secondario. E che sia secondario lo dimostra il fatto che in alcune città africane, dove le differenze di classe sono enormemente più marcate, alcuni che certi vestiti di lusso se li possono permettere li indossano senza farsi troppi problemi al rovescio, perché è più importante mostrare spocchiosamente l’etichetta con la scritta dello stilista, e quindi il valore economico, che l’eleganza. Il lusso, in determinati contesti, è simbolo di capacità economica di potere spendere e del potere sociale associato. E una delle sue caratteristiche, diceva Simmel, è il carattere di superfluo, il fatto cioè di potere spendere soldi per qualcosa di cui non si ha bisogno, a dispetto di chi li deve spendere per procurarsi l’utile o il necessario. Diceva Anatole France che la legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi così come ai poveri di dormire sotto ai ponti. È poi, naturalmente, un atto di libertà dove andare a dormire, solo che per alcuni dove andare è una scelta, per altri una necessità. Così Soumahoro una volta toltisi gli stivali sporchi di fango per la sua messinscena non ha avuto che da scegliere tra una ricca panoplia di scarpe firmate, come si conviene a chi insegue e spesso confonde i suoi ideali che crede di eleganza; ma a quelli che credono di essere difesi da lui questa scelta non è concessa perché, a togliersi le scarpe, non rimarrebbe poi che restare scalzi.

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