Il Natale 2022, la guerra in Ucraina e la crisi del Cristianesimo

StrettoWeb

di Agazio Loiero – Il Natale di quest’anno si presenta sotto infausti presagi. La pandemia, malgrado gli sforzi degli scienziati per trovare sempre più potenti vaccini, è ancora tra noi al ritmo di cento morti al giorno. In Cina chissà quanti sono. Purtroppo il regime non permette la diffusione di dati certi. Un problema in più per il mondo visto l’alto numero degli abitanti di quel paese. La guerra in Ucraina continua con il calvario quotidiano di morti e distruzione. Negli ultimi tempi Putin ha mutato la strategia e ha attinto a nuovi modelli di sterminio la cui memoria sembrava sopita. Com’è stato più volte scritto in quest’anno di guerra, Stalin nel biennio 1932-33 eliminò 4-5 milioni di contadini ucraini che si opponevano alla collettivizzazione sovietica, ma non li sterminò con i metodi della violenza tradizionale che in genere infliggono la morte istantanea. Si limitò a requisire loro il raccolto e li fece morire per fame. Un vero genocidio noto con il termine “Holodomor”. Di questa tragedia, inghiottita dal pozzo dei misteri staliniani, si ebbe notizia solo nel 1986 grazie allo storico inglese Robert Conquest. Putin, per fiaccare la resistenza del popolo ucraino e portarlo alla morte non ricorre alla fame ma al freddo. Bombarda da settimane tutte le fonti di calore in un paese dove la temperatura è da molte settimane sotto lo zero. Le immagini che le televisioni ci mandano nelle nostre case non sono solo crudeli sono anche fuori dal tempo. Come se un maleficio ci avesse catapultato all’indietro in una guerra del passato con i morti sotto gli edifici abbattuti dai bombardamenti. Tutto questo sullo sfondo di una possibile guerra nucleare. Ma c’è da aggiungere un elemento altrettanto raccapricciante. La guerra ha preso una china inarrestabile che non sembra prevedere nel tempo breve una fine. Neanche un’interruzione. Neanche per Natale.

Questa festa di oggi che celebra la nascita di Gesù di Nazareth e che presenta una sua unicità nel novero delle ricorrenze, veniva spesso in passato rispettata dai belligeranti. Anche da quelli che non avevano alcun rapporto con la fede. Perché il cristianesimo ha questo di buono. Spesso nel corso dei secoli è riuscito a diffondere il suo respiro ben oltre la cerchia di coloro che avevano abbracciato la fede. Le frasi, gli aggettivi, tra i più belli sul messaggio di Cristo, li ho uditi dalla bocca di filosofi atei. Detto questo, so bene che il cristianesimo negli ultimi anni – lo affermo con rammarico – appare in crisi nel mondo. La voce del Papa, per quanto si affanni senza sosta nel tentativo di fermare il calvario delle guerre che si combattono nel mondo, fa oggi fatica a penetrare nel cuore degli uomini. La comunità che la domenica va a messa si assottiglia, diventando di anno in anno più vecchia. Sto leggendo in questi giorni un bel libro di Corrado Augias, edito da Einaudi: “La fine di Roma”, il cui sottotitolo è “Il trionfo del cristianesimo, morte dell’impero”. L’autore ricorda che a partire dalla battaglia di Ponte Milvio in cui l’imperatore Costantino sconfisse Massenzio e percorse in trionfo l’intera via Lata (l’attuale via del Corso) la religione cristiana fu adottata, con un gesto ritenuto audace dagli storici, dall’Impero romano. Augias infatti aggiunge che all’epoca – siamo nel 312 – “l’Impero romano contava circa settanta milioni di abitanti e si calcola che solo il cinque o il dieci per cento di questi aderisse alla religione cristiana”. Da allora la fede in Cristo dilagò in tutti gli angoli della terra fino a raggiungere i 2,3 miliardi di cristiani presenti oggi nel mondo. So bene che, come ho accennato prima, la fede in questo nostro tempo è diventata flebile ed è pure avversata. Resta il fatto che, sia per chi crede sia per chi non crede, esistono due elementi che non la fede ma la ragione non può disconoscere. Il primo. I principi di libertà e di uguaglianza su cui si fonda la forza delle moderne democrazie hanno tratto origine dall’insegnamento di Gesù di Nazareth. Il secondo. Gli ideali di giustizia, di fratellanza, riportati da Matteo nel Discorso della Montagna, quegli “afflitti che saranno consolati”, quei “miti che erediteranno la terra”, “quegli operatori di pace che saranno chiamati figli di Dio” nel mondo di oltre duemila anni fa pieno di sopraffazione, di violenza, di schiavitù e di ingiustizia rappresentano una rivoluzione. Ancora insuperata.

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