Quando Benedetto XVI accolse in Vaticano una delegazione della Regione Calabria

Papa Benedetto era un personaggio di non comune sensibilità, di grande cultura, dall’aspetto mite

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Oggi si sono celebrati i funerali di Papa Benedetto. Si è scritto molto intorno alla sua figura, sia all’epoca della rinuncia al pontificato sia da quando si è appreso della sua morte. Quel gesto rivoluzionario per la storia della Chiesa lasciò una traccia d’invincibile stupore nel mondo intero. Faccio qui una digressione personale. Nel dicembre del 2006 – ero all’epoca presidente della regione Calabria – avemmo la fortuna di offrire come territorio l’abete più bello da impiantare come albero di Natale a piazza S. Pietro. Proveniva dalla Sila. Papa Benedetto per l’occasione m’invitò assieme a mia moglie, ad un’udienza privata. Domandai al diplomatico che mi aveva contattato se potevo farmi accompagnare da una delegazione non numerosa di figure istituzionali. Mi richiamò il giorno dopo per darmi una risposta affermativa. Scegliemmo quindi, d’accordo con la giunta, le persone che avrebbero fatto parte della delegazione. I prescelti furono gli assessori Lo Moro, Pirillo, Principe e Pasquale Tripodi. Invitai, fra gli altri, in rappresentanza dell’opposizione l’attuale presidente della giunta regionale, Roberto Occhiuto, all’epoca capogruppo dell’Udc in Consiglio regionale, Dima e Censore e Bulotta e un dirigente della nostra protezione civile Eugenio Ripepe, il quale, insieme al corpo forestale dello Stato, avevano organizzato con grande difficoltà e grande perizia il trasporto dell’abete a Roma. L’accoglienza riservataci dal Papa fu molto cordiale e l’esperienza, da quello che so, è rimasta molto viva nella memoria di tutti i partecipanti all’udienza.

Papa Benedetto era un personaggio di non comune sensibilità, di grande cultura, dall’aspetto mite. Volle sapere, via via che facevo le presentazioni, la storia di tutti i presenti. Quando arrivammo al turno di Principe, il quale da poco aveva subìto un attentato, ebbe un trasalimento. Volle sapere com’era avvenuto e perché. Chiusa la digressione, riprendo il filone narrativo principale. Il Papa, all’epoca della rinuncia fu molto criticato per quella scelta ma io senza essere un teologo, considero quel gesto un atto di coraggio. Certo mi rendo conto che su questo tema delicato della rinuncia pesa la memoria tramandataci da Dante, il quale non esitò a destinare all’inferno circa otto secoli fa il papa Celestino V. “Colui/ che fece per viltade il gran rifiuto”, inserendolo ne “la setta d’i cattivi/ a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (terzo canto dell’Inferno). Noi spesso non ci rendiamo conto di quanto il sommo poeta riesca a influenzare con la sua opera, con la sofferenza del suo lungo esilio, e con le sue parole, alcune di suo esclusivo conio, il nostro giudizio sulle cose del mondo contemporaneo.
Scrivevo poco fa che considero quel gesto di Papa Benedetto un atto di coraggio. Non nego che abbia compiuto, nel corso del suo pontificato, alcuni errori, resta però il fatto che la situazione generale della Chiesa degli ultimi decenni appare abbastanza critica. Le ragioni sono tante. Finché sul soglio di Pietro c’era Papa Giovanni Paolo II che rappresentava la fede allo stato puro, molti fatti negativi venivano attutiti dal suo carisma. Negli anni immediatamente prima della sua morte, quando, ormai privo di forza fisica, si trascinava nelle celebrazioni pasquali avvinto alla Croce, inculcava talvolta nei credenti il dubbio se fosse lui a trascinare la Croce o fosse la Croce, grazie ad una forza miracolosa, a trascinare lui. Un’immagine che evocava il patibolo subìto da Gesù di Nazareth, che resterà a lungo nel ricordo dei credenti. E quando qualche personaggio autorevole della gerarchia ecclesiastica accennava, vista la sofferenza a cui si sottoponeva, alla possibilità di dimissioni, Wojtyla opponeva un argomento tranchant che non consentiva repliche: “Gesù non è mai sceso dalla croce”. Inutile fare paragoni tra i due personaggi. Papa Ratzinger era del tutto diverso da chi l’aveva preceduto sulla soglia di Pietro per temperamento, per cultura e per la diversità del carisma che la sua figura sprigionava. Teologo di fama, impregnato di cultura tedesca ma anche francese, come ha ricordato in questi giorni Andrea Riccardi, “faceva parte dell’Académie Française e integrava con la sua dottrina le intuizioni mistiche e carismatiche di Wojtyla”.

Del quale divenne non a caso il braccio teologico. Purtroppo la Chiesa che Papa Benedetto eredita nel 2005 vive una fase di inarrestabile declino. Gli elementi che fiaccano la sua resistenza sono di natura esistenziale. Nel corso del suo pontificato le vocazioni sono diminuite considerevolmente, le Chiese, la domenica sono semivuote, gli scandali si susseguono, uno via l’altro, in una dimensione planetaria, Vatileaks, lo Ior, la vergogna dei vescovi pedofili, che gli fa ad un certo punto dire rassegnato “quanta sporcizia nella Chiesa”. Si tratta di eventi che mettono a dura prova la sensibilità di quell’omino vestito di bianco, dal viso bianco e dai capelli bianchi. C’è un eccesso di onestà nel riconoscere di non avere più la forza di fronteggiare la crisi della sua Chiesa e c’è parimenti un eccesso di onestà nell’ammettere implicitamente che ci può essere, dopo di lui, un cardinale in grado di restituire nuovo vigore ad una Istituzione millenaria. Troppo complesso e fatuo gli appare il mondo per poterlo interpretare secondo canoni elementari dettati dal messaggio cristiano, ereditato fin dalla fanciullezza, ai cui antichi aromi ogni tanto ricorre per trovare un lenimento ai suoi affanni. A un giornalista che gli domanda come lui immagini il paradiso, non risponde che lo figura come un orizzonte senza vento, di prati verdi, di acque azzurre, di aria profumata. Lui, più semplicemente, lo figura come un ritorno all’infanzia con suo padre e sua madre.

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