Neonato morto soffocato in ospedale: la colpa è di tutti noi

La morte terribile del neonato a Roma scopre un vaso di Pandora che, per comodità, tutti tendiamo a tenere chiuso

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La mamma di Carlo Mattia non si dà pace. E come potrebbe. Il suo piccolino di soli pochi giorni ha perso la vita tra le sue braccia, quasi senza motivo. La donna, ancora sotto shock, ormai a casa prova a ricostruire quanto accaduto. “Il mio parto è stato molto laborioso, ho avuto molti punti. Ero stremata. Le acque si sono rotte il 4 gennaio sera e ho partorito il giorno dopo, 17 ore di travaglio“. La stanchezza, dunque, ricopriva ogni fibra del suo corpo. E ogni donna che abbia partorito sa bene che il termine ‘stanchezza’ viene utilizzato per comodità, ma quella sensazione di sfinimento è molto, molto di più di semplice stanchezza. “Abbiamo chiesto almeno cinque volte un aiuto per accudire il piccolo: due volte io, due il mio compagno e una mia mamma”, racconta la donna. Eppure, nonostante questo, nessuno è arrivato in loro aiuto.

La colpa, dunque, è probabilmente degli operatori sanitari dell’ospedale Pertini di Roma. Forse. O forse non solo. E’ giusto che ora si indaghi per capire le responsabilità concrete, ma la questione va ben oltre. La verità è che poteva accadere anche a casa, dopo un paio di giorni. Già, perché questa morte terribile scopre un vaso di Pandora che, per comodità, tutti tendiamo a tenere chiuso. Non sapremmo come affrontarlo, probabilmente. Ogni mamma sa, in cuor suo, cosa si nasconde dietro questa morte: solitudine, disperazione, senso di impotenza. E anche se questo non si dovrebbe dire pubblicamente, forse questa vicenda è la prova che è arrivato il momento di farlo. Perché non si tratta di lamentele da mamme non in grado di svolgere il proprio ruolo. No. E’ solo l’amara realtà moderna. Una realtà che pretende mamme perfette, autosufficienti, in grado di accudire i propri piccoli, ma per contro non fornisce alle stesse i mezzi giusti per farlo.

Viene da chiedersi come facessero in passato le nostre nonne e la risposta è presto data: la rete familiare che ruotava attorno ai singoli nuclei famigliari era decisamente diversa da quella moderna. Mamme, nonne, zie, sorelle, cugine più grandi: tutte si prodigavano per sostenere le neo mamme nei primi mesi, a volte anni, di vita dei piccoli. Oggi, fatta eccezione per le visite sporadiche utili a postare foto sui social con scritto “5 giorni di te, amore della zia”, le zie, le cugine, a volte anche le nonne, latitano. E non è un’accusa, è un’auto-accusa. Perché di questo processo siamo tutti complici. Troppi impegni, troppa frenesia, troppa carne al fuoco. E le neo-mamme vengono lasciate lì, in balìa dello sconforto, perché tanto se ci sono riuscite miliardi di donne prima di lei, ce la farà anche lei.

Ma così non è. Perché ogni donna non è miliardi di donne: è sé stessa, con le sue paure e le sue incertezze, con i suoi dubbi e la sua sensazione di non farcela. Ma tutto questo non si può dire: il prezzo da pagare sarebbe quello della vergogna di non essere in grado di assolvere ad un ‘compito’ naturale come bere un bicchier d’acqua. O almeno così racconta chi non l’ha vissuta o chi ha avuto la vita facile.

Per non parlare di quando il bambino cresce e questa società così tanto attenta alle esigenze femminili (!) inizia a pretendere donne multitasking (che termine ipocrita!). Ma questa è un’altra storia. O forse è il secondo volume della saga “Se non sei la più brava non vali nulla“.

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